Uno dei primi compiti che attendono il nuovo Governo (quando sarà formato) sarà una manovra d’aggiustamento dei conti pubblici, come illustrato una settimana fa su questa testata. È compito che può essere affrontato anche da un esecutivo in carica per l’ordinaria amministrazione, sempre che non sia stato sfiduciato dal Parlamento. Potrebbe occuparsene lo stesso Governo Gentiloni nelle more dell’elezione dei Presidenti di Camera e Senato – il Parlamento è convocato a questo fine per il 23 marzo -, dell’elezione dei Presidenti dei Gruppi Parlamentari, delle consultazioni al Quirinale e della formazione dell’Esecutivo e relativo voto di fiducia da parte delle Camere. Naturalmente il Governo potere effettuare tutti gli atti preparatori e, al limite, varare un decreto legge, che dovrebbe, però, essere convertito dal nuovo Parlamento.



Molto più complicato un altro compito che attende chiunque dovrà assumere responsabilità di governo: il negoziato per le riforma dell’eurozona. È una trattativa che si svolge, in modo nascosto e strisciante, da qualche mese, e di cui sono protagonisti Germania e Francia, ma che verrà probabilmente aperta con un documento di proposte della Commissione europea che dovrebbe essere reso noto il 13 marzo. È un negoziato che dovrebbe svolgersi in tempi stretti: i lineamenti della riforma dovrebbero essere sul tavolo del Consiglio europeo di giugno. In tal modo ci si avvantaggerebbe dei mesi di relativa bonaccia sui mercati finanziari e la riforma sarebbe in atto prima della prossima crisi finanziaria (prevista per il 2019-20).



Non mancano proposte di riforma dell’eurozona (che potrebbe implodere a una prossima crisi), anche a ragione della crescita di movimenti sovranisti ed euroscettici e del rischio che i Paesi maggiormente indebitati – ossia Grecia e Italia – contagino gli altri. Sono nelle righe di documenti di economisti, alcuni a titolo unicamente personale, altri con un crisma di ufficiosità (come il paper di quattordici economisti – sette francesi e sette tedeschi – tutti considerati, a torto o a ragione, vicini ai rispettivi Governi o il “non paper” dell’ex ministro delle Finanze tedesco Schäuble), ma non si sa se ci sono posizioni ufficiali. Lo dovrebbe essere tra circa una settimana il documento della Commissione europea.



Uno dei cardini della riforma dovrebbe essere la riforma dell’European stability mechamism, Esm (colloquialmente chiamato Fondo salva-Stati) in un Fondo monetario europeo (Fme) oppure mantenendo la denominazione ma assumendo le funzioni di strumento preventivo, tale da impedire lo scoppio di crisi del debito sovrano.

La proposta è stata formulata inizialmente nel 2010 da Daniel Gros e da Thomas Mayer, ambedue del Centre for european policy studies (Ceps), un think tank che lavora in stretta collaborazione con la Commissione europea. È stata aggiornata in un working document diffuso sul web il primo marzo. Il documento analizza le attività dell’Esm dalla creazione alla fine del 2017 e sottolinea come sia stato di “importanza critica” nel contenere il costo finanziario della crisi e che quattro dei suoi cinque programmi sono stati un “successo”. “Il caso della Grecia però dimostra come si debba essere pronti anche a insuccessi”. Per minimizzare tale insuccesso l’Esm, o meglio ancora un Fme, dovrebbe poter porre rigorose condizioni di politica economica e finanziaria, come fa il Fondo monetario internazionale quando concede facilitazioni creditizie. Ciò è soprattutto importante quando si è alle prese con Paesi fortemente indebitati (il riferimento all’Italia è appena velato): è difficile sapere in anticipo se il fardello del debito è sostenibile o meno, sottolineano Gros e Mayer.

Quindi l’unione monetaria deve, in prima istanza, dare il beneficio del dubbio, ma avvertire che tale beneficio sarà di breve durata e se il programma concordato non da i frutti sperati, l’Esm (o se creato il Fme) deve intervenire, con forte condizionalità, per fornire finanziamenti-ponte o alleggerire il costo dell’insolvenza. Attenzione, quindi, non si tratterebbe di solidarietà o di mutualizzazione del debito, ma di interventi a favore del bene comune (dei soci dell’unione monetaria) “stabilità finanziaria”.

Questi i lineamenti generali, ma attenzione – come dice un vecchio proverbio britannico – il diavolo si nasconde nei dettagli. E l’Italia ha ancora fresca l’esperienza della trattativa sull’unione bancaria e del bail-in. Per quanto attiene all’Italia, nella proposta quale delineata nel documento Gros-Mayer ci sono punti forti e punti deboli. Come già scrisse nel lontano 1790, in Report on Public Credit, Alexander Hamilton dimostrò che lasciare il fardello del debito ai singoli Paesi non è compatibile con un’unione monetaria. D’altro canto, la condizionalità può essere molto pesante, specialmente per un Governo appena insediato.