Sono proprio crucchi, non c’è niente da fare. Non più tardi di giovedì scorso, fonti interne alla Spd si erano fatte sfuggire – con malcelata soddisfazione – che il “Sì” degli iscritti alla Grosse Koalition era in vantaggio, circa al 66%. Eppure le schede erano ancora tutte nelle varie città in cui erano state raccolte, solo sabato sono arrivate al quartier generale di Berlino per lo scrutinio: azzeccato in pieno! Il 66% della base socialdemocratica ha dato via libera a una nuova governo di coalizione con la Cdu di Angela Merkel e i cristiano-sociali bavaresi della Csu. Insomma, pericolo scampato.
Stamattina – l’articolo è in Rete tre ore abbondanti prima dell’apertura delle Borse, quindi azzardo – il Dax potrà respirare, nessun attacco. E chi, eventualmente, si fosse fatto ingolosire e fosse andato a ingrossare le fila dell’open interest sulle opzioni al ribasso, corra pure a chiudere la posizione al prezzo richiesto: la Germania ha un governo. Anzi, se tutto andrà come deve, ce lo avrà dal 14 marzo. Ma cosa sono pochi giorni, a fronte degli inusitati cinque mesi trascorsi dal voto politico senza che si sapesse chi comanda nella nazione-locomotiva dell’Ue? O, forse, sarebbe meglio chiamarla ex-locomotiva. Magari, visto che siamo in tempi di mania antifascista, littorina. E se ci pensasse la Borsa italiana a rovinare la giornata al Dax e alle altre Piazze europee, ora che la grande paura teutonica è passata?
Scrivo di domenica pomeriggio, quindi completamente al buio rispetto a exit-poll, proiezioni, letture della mano o della sfera di cristallo: magari, invece, il Ftse Mib è in spolvero e sta trainando l’intero Vecchio Continente. Poco importa, come ho scritto nel mio articolo di sabato e come ha mirabilmente spiegato nel suo articolo – sempre di sabato – il professor Giulio Sapelli, il mondo gira anche senza Di Maio, Berlusconi e Renzi. Anzi, se ne frega proprio. Tanto più che, formalmente, ora la Germania pare avere una grana peggiore con cui fare i conti delle possibili bizze dei giovani socialdemocratici: i dazi di Trump su acciaio e alluminio. Ma, soprattutto, la minaccia dello stesso presidente Usa di ampliare il novero dei prodotti di importazione penalizzati alle automobili prodotte nel Vecchio Continente, se l’Ue darà seguito alle minacce di reagire alla scelta di Washington, imponendo a sua volta tariffe penalizzanti su jeans, motociclette e bourbon.
Ora, questo grafico ci mostra come in effetti gli Usa abbiano un problemino di deficit commerciale nei confronti dell’Ue, ma la questione è altra ed è tremendamente seria: gli Usa non sono in grado di fare la guerra a nessuno, vogliono però spingere Cina ed Europa a scatenarla. Godendosi le conseguenze disastrose per l’economia globale, già intenta a ballare il tip tap sull’orlo del precipizio.
Per capire la strategicità della mossa statunitense riguardo il settore automobilistico, basta guardare i dati di vendita del comparto di febbraio su base annua: GM -6,9%, Ford -6,9%, Fca -1%, Nissan -4% e Honda -5,6%. A godere, soltanto Toyota (+4%) e, udite udite, Volkswagen con un bel +6%. Insomma, il Dieselgate non è servito a rimettere a posto le cose. E nemmeno le multe dei tribunali Usa. E nemmeno la prosecuzione della politica di spesa federale, di fatto aiuto di Stato, resa strutturale da Obama e lasciata identica da Donald Trump. Ecco, a conferma, le parole di Mark LaNeve, vice-presidente del marketing, dei servizi e delle vendite Usa della Ford: «In febbraio, la spesa totale su incentivo per l’industria è scesa di 65 dollari su base annua e questo dopo un calo di 50 dollari rispetto a gennaio. Questo è un cambiamento drastico non solo rispetto allo scorso anno ma agli ultimi tre anni, quando i cambiamenti su base annua erano nell’ordine medio di un aumento di 300-400 dollari per l’intero periodo». Ma gli Usa non erano la Mecca del liberismo? Senza incentivi federali non si vendono auto?
Pare di no e la questione è seria, per due motivi. Il primo è legato al fatto che l’industria aveva operato break-even e piani industriali su previsioni di crescita dovute allo spillover continuo dei danni compiuti dagli uragani Harvey e Irma: non è andata così. Il secondo ce lo mostrano questi tre grafici: negli Usa si vendono solo mezzi commerciali – e di basso consumo -, mentre le auto no. E, anche quando si vendono – grazie al credito al consumo e agli incentivi/sgravi federali – non sono i marchi statunitensi a essere comprati. Da agosto 2014 a febbraio di quest’anno, i dati del Bea ci dicono che le vendite di automobili negli Stati Uniti sono calate di quasi un terzo: e questo grazie anche al ribilanciamento garantito appunto dall’aumento dei cosiddetti light trucks, altrimenti la figura sarebbe ben peggiore. Il tutto, come ci mostra il grafico ad hoc, nonostante il reddito medio degli americani sia in costante crescita, come vuole la narrativa trumpiana ormai presa per buona da tutti.
Già, perché anche i nostri quotidiani autorevoli continuano a parlare di mercato dell’auto Usa da record, ovviamente sparando titoloni per le buone vendite di Fca, ma, altrettanto chiaramente, evitando di toccare l’argomento quando i dati sono come quelli di febbraio che ho appena elencato. Questo cosa significa? Due cose. Primo, se formalmente non si vendono auto con dinamiche reddituali così positive – e senza cicloni e uragani in vista – è dura sperare in un aumento delle vendite da qui all’estate. Oltretutto, con il prezzo del carburante che può solo salire, stante anni di petrolio ai minimi e tensioni geopolitiche sempre più montanti, casualmente in aree sensibili all’argomento (vedi Deir-Ezzor in Siria e la telefonata di Trump a Merkel e Macron per preannunciare che non verranno sopportate ulteriori atrocità di Assad, la Libia o le tensioni attorno all’Iran e all’accordo sul nucleare che ha garantito a Teheran il ritorno all’export di greggio). Di più, anche il settore dei piccoli veicoli commerciali difficilmente potrà crescere ulteriormente – o, comunque, a questi ritmi, garantendo un ribilanciamento a ogni tonfo del settore auto -, quindi l’intero comparto motor statunitense potrebbe essere su un pericoloso crinale: o aumenta a dismisura la spesa federale, leggi un secondo salvataggio del comparto dopo quello di Obama, oppure a queste criticità presto andranno a sommarsene altre due: il trascinamento al ribasso, primario, del mercato del lavoro e l’esplosione del bubbone di mal-investment da sussidio statale di questi ultimi cinque anni, con la ratio scorte/vendite ai massimi già da molti trimestri di fila e i piazzali dei rivenditori pieni.
Insomma, è l’America ad avere tutto da perdere da una guerra commerciale, se questa fosse reale. Il problema è che Washington intende scatenarla per creare un alibi “patriottico” – quindi spendibile con l’America profonda che è la base elettorale di Trump e che non gli perdonerebbe un altro salvataggio di Wall Street, usando in quel modo la via finanziaria all’emergenzialità da espansionismo monetario – alla Fed per smettere con la suicida (rispetto alla realtà macro) politica di normalizzazione dei tassi, invertendo nettamente la rotta e ricominciando a monetizzare debito e stampare moneta in nome dell’America first e dell’operaio statunitense messo sotto dal dumping scorretto e sleale di cinesi ed europei.
È vero? No e ce lo dimostra questo grafico, dinamiche e problemi sono altri (ad esempio, questa piccolissima variabile evolutiva del mercato del lavoro e della produttività), ma oramai nessuno sa più cosa sia vero o falso, anzi è necessario creare questa confusione goebbelsiana per riuscire a sopravvivere. Come Sistema, come Impero, come Stati Uniti. È uno scenario enorme che passa da mille rivoli, ma che ha, essenzialmente, una priorità (creare una crisi che giustifichi nuovo Qe, a pioggia) e tre strumenti per ottenerla: guerra commerciale, debito pubblico e prezzo del petrolio.
Ne parleremo domani e penso anche per il resto della settimana: siamo allo snodo epocale, le miserie elettorali italiane lasciamole pure dove sono. In un caos globale simile, chi vince e chi perde nella guerra delle promesse da ubriaco verso palazzo Chigi è davvero l’ultima delle nostre preoccupazioni. Volete sapere quale è la prima o dovrebbe esserlo, almeno a mio modesto avviso? Ce lo mostra quest’ultimo grafico, il quale fa da corredo immaginifico alle parole di un guru di Wall Street come Jim Grant, non a caso noto come “Mr. Market”, pronunciate quando qui era la notte pre-elettorale, parlando alla CNBC: «Volete un esempio di come il mondo stia sbagliando completamente a prezzare i tassi di interesse? Guardate all’Italia, che sta tenendo importanti e potenzialmente devastanti elezioni politiche questa domenica… c’è una security di grado speculativo, il bond Telecom Italia scadenza 2022 a 5 e ¼ di rendimento, che sta tradando allo 0,8% di yield, pur essendo di fatto un junk bond con handle a zero”.
Un esempio preso a caso, un Paese preso a caso per dimostrare come, se l’Europa è ancora in piedi, il merito sia solo di Mario Draghi e del suo Qe, acquisti di bond corporate in testa, come vi dico da mesi? No. Ve lo garantisco. Nessuna casualità. E, formalmente, quel Qe e il suo shopping allegro stanno per finire. Altro che Di Maio, c’è di peggio da temere.