Il Muzio Scevola dello shampoo, l’Orazio Coclite del paddock, l’Ettore Fieramosca di Azzurra – insomma, lui: Luca Bellicapelli Montezemolo, ex presidente della Confindustria, ex presidente della Fiat, ex presidente di Alitalia ed ex presidente di Italo gliel’ha cantata chiara, a quel Marchionne col pulloverino blu, che tre anni fa osò metterlo alla porta di Maranello. Lui che è un uomo tutto d’un cachemire ha redarguito con l’arma affilata dell’ironia il “salto sul carro” dei vincitori che avrebbero commesso due suoi successori, appunto Marchionne e il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia: “Rimango molto sorpreso nel vedere come esponenti importanti della cosiddetta classe dirigente salgano sul carro del vincitore prima ancora che questo abbia cominciato a muoversi”.



Hai capito la staffilata? Da un pulpito così alto – metaforicamente, per carità – brucia forte. Perché si riallaccia, nemmeno tanto velatamente, alle dichiarazioni della vigilia rese appunto da Boccia e da Marchionne: “I 5 Stelle non fanno paura, valutiamo i provvedimenti, stiamo parlando di partiti democratici. Non ci spaventa un governo guidato da Di Maio”, ha detto semplicemente l’onesto Boccia, che era stato attentissimo, ma invano, evidentemente, a non schierarsi prima del voto ma a dare solo indicazioni programmatiche. E poi Marchionne: “Salvini e Di Maio non li conosco, non mi spaventano. Paura dei 5 Stelle? Ne abbiamo viste di peggio”, ha detto. 



E dunque: l’ex allievo e maggiordomo dell’avvocato Agnelli – l’uomo che teorizzava come la sua Fiat dovesse essere “filogovernativa per definizione” – oggi fa il fiero. Anzi, Montezemolo fa proprio il renziano: chapeau. Forse se lo può permettere perché non ha più responsabilità! Che bello: se l’è vendute tutte, ultima il treno Italo, passato agli americani, affinché lo ribattezzino Amerigo… si può rilassare, e ha il tempo di pontificare, tra un Martini e un paio di buche al golf.

In effetti né Boccia né Marchionne hanno uno straccio di ragione in più del signor Rossi per fidarsi di Di Maio, per la semplice ragione che il giovane leader napoletano non ha mai dato di sé alcuna prova, non ha mai lavorato, né mai avuto responsabilità politiche apicali, è insomma un esordiente assoluto, e fare – in quanto tale – il premier dell’ottava potenza economica mondiale non è un inizio di carriera malvagio. Ma sia Boccia che Marchionne devono porsi nella condizioni di negoziare con qualsiasi governo, proprio come doveva farlo la Fiat dell’Avvocato. 



Sono saltati sul carro del vincitore? Sembra di sì, ma è no: gli corrono dietro pronti a saltarci, sempre che il carro non esca di strada alla prima curva. Non saranno contenti dell’estenuante corvèe, ma gli tocca, a Montezemolo non più. E del resto il capo della Pirelli Marco Tronchetti Provera che, pur avendo venduto il controllo del suo gruppo ai cinesi rimarrà al timone per alcuni altri anni, si è a sua volta atteggiato con prudente ma non ostile attendismo verso i grillini di governo. “Ha ragione Marchionne, abbiamo visto di peggio”, ha detto: “Anch’io ho visto di peggio. Ho visto governi di facciata molto stabili che agivano in maniera irresponsabile, ma attendiamo di vedere bene i programmi. Siamo ancora in una fase tattica”.

Comprendiamoli: devono vivere. Un governo che davvero facesse la metà delle cose rivoluzionarie, e alquanto sgangherate, promesse dai grillini contro le aziende, le metterebbe in ginocchio e con esse l’Italia: possono mai auspicare una cosa del genere Boccia, Marchionne e Tronchetti? Certo che no, ma forse sono saggiamente tranquilli (come del resto, finora, i mercati) perché tre secoli di storia occidentale non si cancellano con un click sul blog di Grillo, e il vertice pentastellato, a poche ore dall’apoteosi, sembra già composto di altri uomini e di altri donne, tutti posati, pacati, ragionevoli e tranquilli. Chi ha le responsabilità di Marchionne, Boccia e Tronchetti – nessuno dei quali, peraltro, si è sperticato, prima del voto, in reprimende o filippiche anti-grillini, pur non nascondendo il loro diverso orientamento – deve scommettere sulla ragionevolezza e la continuità delle scelte di un eventuale governo grillino. Almeno, fino a prova contraria.

Colpisce invece il legittimismo renziano post-litteram di Carlo Calenda, che – da liberista montezemoliano qual è sempre stato, e a dispetto delle grandi capacità e del forte impegno che gli va riconosciuto – ha annunciato la propria iscrizione “solidale” al Pd e ha sibilato contumelie contro Boccia, che pure ne ha sempre elogiato e sostenuto l’azione, forse fin troppo: “Dopo le elezioni si scoprono molte cose nuove”, ha detto: “Ho appreso ad esempio che il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, non sa chi siano i padri del piano Impresa 4.0 mentre ne rivendica la maternità alla sua associazione”. E aggiunge: “Provo allora a ricordarglielo. I padri sono i Governi Renzi e Gentiloni che hanno messo 30 mld a disposizione delle aziende che investono e che innovano”.

E dopo questa lezione di genetica a Boccia, e in attesa che Calenda compia la sua “opa ostile” sui cocci lasciati nell’ex Pd dal suo amico Renzi e lo sostituisca alla segreteria di un partiticchio che, per allora, si sarà ridotto al 3% e sarà stato ribattezzato Pdrc, cioè Partito di Renzi e Calenda, mutuando lo statuto dell’antico Partito Liberale di Renato Altissimo e Ferruccio De Lorenzo, ebbene: in attesa di questi rutilanti sviluppi non ci resta che osservare i fatti, accampati a prudente distanza dal carro dei vincitori – anzi dai carri – in attesa che si posi il polverone dei questuanti.