C’è un ragazzo canadese di 28 anni con i capelli tinti in arancione e un anello al naso che è costato in un mese cento miliardi di dollari ai grandi del digitale, tanto quanto hanno perso sul Nasdaq a marzo Facebook, Google, Amazon e gli altri colossi dell’economia digitale. È un personaggio degno del romanzo più incredibile dell’era virtuale: a 16 anni ha abbandonato la scuola dopo che gli era stata diagnosticata una grave forma di dislessia e di disturbo dell’attenzione. A 17 però già lavorava nell’ufficio del leader dell’opposizione canadese. A 18 ha imparato i rudimenti sull’esame dei dati da un esperto dello staff di Obama, l’anno dopo da autodidatta ha imparato a programmare. A 21 è a Londra come matricola della London School of Economics. Si laurea e comincia a occuparsi di previsioni sulla moda, ma la sua passione resta la politica che, spiega in un’intervista “è come la mafia. Non ne esci mai fuori”. 



Wylie è uno dei fondatori di Cambridge Analytica, la società che ha raccolto (o scippato) da Facebook i dati di almeno 50 milioni di americani (o molti di più) che hanno avuto senz’altro un ruolo rilevante nella campagna che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca e, prima ancora, il Leave a prevalere nel referendum sull’uscita dall’Unione europea della Gran Bretagna. Ma adesso, da grande accusatore, minaccia di essere un teste chiave nel processo contro gli eccessi insiti nell’economia digitale, cavalcando un sentiment di ostilità sempre più diffuso anche tra gli utenti del social. Un’onda che Donald Trump, che pure alle tecniche di Cambridge Analytica (vicina a Steve Bannon, il guru della destra reazionaria cristiana Usa) deve molto, oggi intende cavalcare adottando toni luddisti contro Amazon, che rischia di far saltare il commercio tradizionale con l’aggressività dell’e-commerce e contro Netflix, che minaccia di mettere al tappeto l’industria di Hollywood.



L’ondata ribassista che ha investito il Nasdaq potrebbe essere già alle spalle, visto il rimbalzo dei prezzi nell’ultima seduta di marzo. Ma dietro alle oscillazioni dei listini potrebbe esserci una crepa profonda, favorita tra l’altro dalle difficoltà che si prospettano per i mercati in avvio di una stagione di rialzo dei tassi e di frenata della crescita, dopo l’adrenalina immessa dalla riforma fiscale Usa. Ma andrà così? Sta per scoppiare la temuta bolla oppure il tonfo di questi giorni è solo una buona occasione per risalire sul carro del rialzo del tech? 

Può tornar utile, per tentare una risposta, esaminare più da vicino lo stato di salute del settore. I Fang, dal punto di vista dei prezzi di Borsa, si possono dividere in due schiere: da una parte ci sono i titoli che riflettono i profitti e la crescita in atto. Tra questi figurano senz’altro Facebook, Google, Apple e Microsoft. Al contrario Amazon, Netflix e Tesla hanno quotazioni ben superiori al loro attuale giro d’affari e di profitti. La loro valutazione è una scommessa su una crescita esponenziale in futuro, insita nella natura del loro business. “Facebook – scrive il New York Times – non è, come si tende a credere, uno strumento per favorire la socializzazione, bensì una macchina da guerra che punta a immagazzinare sempre più dati, il vero fatturato che conta. Come Starbucks tende a vender più caffè, Zuckerberg tende ad immagazzinare più dati”, anche a costo di aprire il varco all’utilizzo improprio del tesoro.



A Wall Street, secondo il Financial Times, i valori di Borsa di Facebook e Google risultano a buon prezzo se si tiene conto sia dei profitti che della loro accelerazione. Sia il motore di ricerca che il social network hanno potuto vantare tassi di crescita eccezionali, grazie alla posizione di quasi monopolio, visto che assieme controllano circa il 60% del mercato. Ma proprio per questo il mercato già registra nei prezzi una nota di cautela: migliorare, raggiunti questi livelli, è sempre più difficile. Al contrario la grande espansione non poteva che coincidere con l’allentamento delle barriere di sicurezza a favore dello “scippo” di dati sensibili. Il “furto” compiuto da Wylie (“ma io non pensavo di commettere un reato”, protesta lui) era ampiamente prevedibile, come accusa il ceo di Apple, Tim Cook; “Se noi puntassimo a monetizzare la montagna di dati a nostra disposizione raccoglieremmo cifre da capogiro – ha dichiarato -. Ma abbiamo deciso a suo tempo di non seguire questa strada”. Una decisione, dicono nella società della Mela, legata alla volontà di crescere nel mercato più sensibile al tema della privacy: quello della salute. 

Ma che accadrebbe (o accadrà) se qualche campione del digitale, sensibile più che alle richieste di profitti crescenti dei mercati finanziari che non alla privacy dei pazienti, elaborasse un codice per impadronirsi di dati sensibili sulla salute non solo dei pazienti, ma, come è avvenuto con Cambridge Analytica, anche di amici o semplici conoscenti inconsapevoli? È questa la domanda sollevata dal caso Wylie, decisiva per le sorti del digitale. Non meno importante per le sorti dell’economia e della stessa democrazia della normativa antitrust che all’inizio del Novecento impose lo smembramento della Standard Oil e di altri colossi in grado di condizionare lo sviluppo dell’economia. 

La tremenda forza dell’economia digitale, agli albori dello sviluppo dell’intelligenza artificiale, non va frenata o inibita, ma instradata all’interno di un sistema di regole condiviso. È la lezione più importante impartita da Chris Wylie, il genio dei dati che si è pentito: un po’ colpevole, un po’ millantatore (è tutto da dimostrare che Trump abbia vinto grazie ai dati dei dati di Cambridge Analytica).