Ormai quella di Alitalia rischia di superare, a livello di telenovela, la durata delle storie che più hanno avuto successo in televisione. Ma c’è anche da considerare l’estrema incertezza sul suo futuro: più passa il tempo, più la nebbia sul mistero del suo domani, invece di diradarsi, si infittisce. È la stessa incertezza che attraversa il Paese dove per più di 50 anni è stata la “compagnia di bandiera” e uno dei simboli dell’Italia nel mondo, coincidente con gli alti e bassi che hanno marcato la sua storia. Specie in questi ultimi anni se ne sono viste davvero di tutti i colori, ma la domanda che ancora ci si fa è cosa farà da grande questa compagnia aerea. Perché non solo le strade fin qui percorse si sono rivelate un fallimento (di nome e di fatto), ma si ha anche la certezza che siamo ormai arrivati a un punto tale di confusione che il rischio di percorrere un’altra strada sbagliata è notevole.
Cerchiamo di analizzare le cose certe: in primo luogo è chiarissimo che, pur se l’attuale gestione commissariale pare aver trovato la quadra del suo funzionamento, così com’è ora Alitalia non può stare sul mercato perché la sua flotta di lungo raggio, settore dove si vedono i guadagni, non può competere, per numero e anzianità, con quella delle più importanti aerolinee europee. Pur se al suo interno, finalmente, pare si sia capito che l’elemento “materiale umano”, trasformato in “capitale umano”, facendo pulizia di dirigenze e clan non proprio all’altezza della situazione, possa creare quella differenza che fino a non molti anni fa rappresentava l’orgoglio Alitaliano. Se a ciò non si accoppia un supporto tecnico valido, con un rinnovo della flotta, non ci potrà mai essere una crescita, pure con salari ridotti a zero, visto che il costo lavoro non è mai stato un problema e non lo è ora che ormai ha raggiunto la lowcostizzazione.
Le strategie di mercato ci sono, ma metterle in pratica necessita, lo ripetiamo, di almeno una decina di velivoli di lungo raggio in più, oltre a una rivoluzione nelle relazioni industriali che veda in atto pure un marcato ricambio sindacale fatto di compagini dotate di un sano corporativismo funzionale agli interessi di un’azienda nella quale il lavoratore torni a occupare una posizione attiva pure nella sua economia. Insomma, tornare a quel progetto messo in piedi da Cempella, l’Ad che negli anni Novanta rischiò di far diventare Alitalia la più grande compagnia europea, di un’azionariato che ne coinvolga le maestranze.
Detto questo veniamo ad altri punti importanti: nell’attuale incertezza politica pare che ci si sia resi conto che uno Stato che si rispetti debba poter controllare settori nevralgici dell’economia non solo attraverso regole, ma anche con una partecipazione diretta (non di maggioranza, altrimenti si ritorna al rovinoso passato) che integri altri elementi in nome dell’italianità, come fanno diverse nazioni da lustri (vedi ultimi sviluppi del caso Telecom). Ora è chiaro che il turismo sta diventando una risorsa sempre più primaria anche nella sua unicità dell’Italia di oggi, ma per far sì che si possa sviluppare enormemente è essenziale un vettore di casa in un’ottica di sistema trasporti vitale per la nostra intera economia, che ormai si regge sulle piccole e medie industrie che ne hanno, pure loro, un estremo bisogno.
Un settore, quello del trasporto aereo, che si basa anche su di una concorrenza leale e una reciprocità a livello di accordi con gli altri Paesi, visto che ormai da decenni l’Italia costituisce uno dei mercati più notevoli del Vecchio Continente, ma anche con un’assenza di applicazione di leggi che hanno permesso lo sviluppo del settore low cost da parte di vettori stranieri non solo attraverso veri e propri aiuti di Stato, ma anche senza nessun tipo di controllo. L’ultimo caso, di poche settimane fa, è il lancio dell’aerolinea low cost dell’Air France (chiamata Joon) con un numero di frequenze tali da poter influire anche nel settore intercontinentale e alimentare i voli transoceanici dal parigino Charles De Gaulle (e non solo).
Bisogna puntare su due hub (Fiumicino e Malpensa) che geograficamente sono in posizioni strategiche rivolti uno verso il Nord Europa, l’altro verso il bacino del Mediterraneo: in parole povere ritornare a quell’Alitalia che negli anni Novanta “minacciava” di essere un grande vettore e che poi uno Stato estremamente incapace fece fallire, con ingenti capitali buttati dalla finestra nel corso degli anni. Abbiamo tutti i numeri per risorgere, stavolta senza l’aiuto dell’ennesima “Fenice”, il piano elaborato dai capitani coraggiosi che dal 2009 portò Alitalia al secondo fallimento.