C’è qualcosa di oscuro in merito alla problematica dazi. Trump, all’inizio, ha pronosticato una vera e propria guerra commerciale contro i cinesi, per poi ridurre le attuali tensioni commerciali nella ricerca di un accordo al fine di prevenire sviluppi dannosi sia per gli Usa che per la Cina, ma anche per l’intero mondo.
Sono di questo fine settimana i messaggi concilianti del presidente americano verso Pechino, contrapposti, di fatto, a una “durezza mai ravvisata verso la Ue”. Gli investitori internazionali sono stati rassicurati dal consigliere economico della Casa Bianca, Larry Kudlow, il quale ha specificato che i dazi introdotti dall’amministrazione Trump sono ancora allo studio e in attesa di risposte concrete, e ciò per un periodo di almeno due mesi prima della definizione di ogni possibile azione concreta.
Di fatto, non bisogna dimenticarsi che il colosso asiatico è il maggior detentore, pro quota, del debito pubblico Usa. Tale debito, a oggi, è in crescita esponenziale, a causa delle politiche fiscali aggressive della Casa Bianca. Ecco, quindi, che la Cina ravvisa, teoricamente, un’offensiva Usa anti-Pechino, che implicherebbe la colossale cifra di 150 miliardi di dollari, valore pari a un terzo dell’export cinese verso gli Stati Uniti. Questa situazione è vista con terrore dall’americano medio, il quale vedrebbe aumentare in maniera più che esponenziale l’esborso per la propria spesa quotidiana.
Il paradosso, che si collega al punto “oscuro“ di tutta questa “farsa pirandelliana”, è che la Cina è il principale creditore degli Usa, e non solo. Il governo americano ha un disperato bisogno di continue iniezioni di liquidità e, quindi, prestiti da parte del governo cinese. Il punto è che la maggior parte degli incassi che la Cina riceve, vendendo i propri prodotti in America, viene reinvestito automaticamente nel continente americano da oltre 15 anni sotto forma di acquisto dei Buoni del Tesoro Usa. A oggi l’America dovrebbe restituire alla Cina oltre 1.200 miliardi di dollari presi in prestito. Di fatto, Trump sta veleggiando in un campo economico-finanziario tutt’altro che tranquillo.
Il grosso punto di domanda, che interpella tutti gli economisti mondiali, è quanto un’eventuale, anche se improbabile, ritirata di Pechino dal suo stock titoli del Tesoro americano (eventualmente per reinvestirli in titoli europei) possa stravolgere i mercati finanziari mondiali, così dipendenti dal debito pubblico americano.
Fosse così, lo tsunami causato da una tale operazione, determinata dalla fuga di Pechino, si infrangerebbe, con un aumento spropositato, sui tassi d’interesse americani, i quali porterebbero a un costo previsionale per il bilancio pubblico Usa di 1.500 miliardi di dollari in dieci anni. D’altro canto, ciò causerebbe un crollo dei prezzi dei titoli Usa, con conseguente indebolimento del dollaro, che farebbe salire i prezzi delle esportazioni cinesi (gli Usa, comunque, restano per la Cina il più importante mercato di sbocco).
Quindi? Il governo cinese potrebbe scegliere una strada meno hard per far sentire la propria pressione sugli americani. Potrebbe lentamente lavorare su un deprezzamento dello yuan, il che permetterebbe di creare un ammortizzatore economico utile ad abbassare il costo delle merci cinesi verso gli Stati Uniti, contrastando così efficacemente l’impatto sui dazi.
In tale situazione l’Europa si vedrebbe costretta a correre ai ripari, stipulando nuovi accordi commerciali con il Giappone e con tutti i Paesi dell’America Latina e intensificando rapporti sempre più diretti proprio con la Cina. Cosa, peraltro, già avviata con la “Nuova Via della seta”.