«C’è tutto un ampio spettro di opzioni per quanto riguarda la Siria. Certamente, la Germania non prenderà parte ad attacchi contro l’esercito o istituzioni siriane». Mentre Theresa May si accingeva a riunire il Gabinetto di difesa ed Emmanuel Macron annunciava di avere le prove dell’uso di armi chimiche da parte di Assad a Douma, Angela Merkel si smarcava con nettezza dall’ipotesi di coinvolgimento del proprio Paese in una missione bellica contro Damasco al fianco degli Usa. Come mai una scelta simile? Perché in Germania, comunque la si pensi, c’è un capo del governo degno di questo nome. Non tanto per la scelta in sé, visto che negli ultimi anni Berlino ha più volte accettato supinamente i diktat di Washington, in primis riguardo l’imposizione e la reiterazione delle sanzioni Ue contro la Russia per la questione ucraina, ma perché sa leggere i tempi e adattarsi alle situazioni, con un’unica priorità in testa: il bene del suo Paese. Punto. 



Perché parlo di timing azzeccato? Semplice: andate a guardare chi aveva lanciato il proprio messaggio riguardo la Siria subito prima della Merkel e subito dopo il dinamico due di leccapiedi anglo-francese. Esatto, Donald Trump. Il quale ha proseguito con la sua logica di tweets spiazzanti sull’argomento, la stessa cominciata mercoledì quando a stretto giro di posta preannunciava prima missili per i russi in Siria e poi incolpava dei cattivi rapporti con Mosca il procuratore speciale del Russiagate, Robert Mueller. «Non ho mai detto che l’attacco in Siria avverrà presto», ha twittato l’inquilino della Casa Bianca, di fatto imprimendo una frenata alla corsa bellicista degli ultimi tre giorni. E, utilizzando una metafora calcistica, mandando in fuorigioco sia la May che Macron. La Merkel ha atteso, non ha aperto bocca fino a oggi. Blanda condanna dell’accaduto di Douma, ma con l’ammonimento all’uso della prudenza, in assenza di prove certe delle responsabilità governative siriane. Questa è la differenza fra uno statista e un parvenu: la May e Macron, sono parvenu. La Merkel no. 



E, purtroppo, nella seconda categoria, occorre annoverare anche Paolo Gentiloni. Il quale non solo ha fatto sua la narrativa dell’attentato con gas letali in assenza di alcuna prova, anzi con forte puzza di provocazione da parte di ribelli ed “Elmetti bianchi”, ma ha di fatto spalancato la logistica delle nostre basi ai desiderata degli alleati. “Vuoi decollare da Sigonella? Prego, accomodati, ci mancherebbe”: abbiamo 15mila operativi americani in Italia, fra militari e personale civile, abbiamo le loro testate nucleari e i loro aerei e chiunque provi a dire qualcosa viene immediatamente tacciato di anti-atlantismo e intelligenza con il nemico. È chiedere troppo, ancorché senza un nuovo governo ma con quello vecchio in carica per gli affari correnti, che vengano investite le Camere, di fronte a decisioni simili? È chiedere troppo non essere degli scendiletto dei desiderata Usa, ogni volta che da Oltreoceano arriva un colpo di tosse? Anche perché ci sono almeno tre variabili che potrebbero giocare a nostro favore in questa situazione, un unicum che farsi sfuggire sarebbe oltraggioso. 



Primo, nel corso della cerimonia di accreditamento dei nuovi ambasciatori a Mosca, Vladimir Putin in persona ha parlato dell’Italia come di un partner fondamentale e strategico della Russia in Europa, una vera e propria dichiarazione d’amore. Interessato, ovviamente. Ma cosa non lo è in politica e in diplomazia, a meno di non credere agli unicorni e ai Puffi? Putin voleva evitare che l’Italia si accodasse agli alleati europei degli Usa concedendo proprio le basi aeree, le stesse che il compagno D’Alema aprì senza battere ciglio per massacrare la Serbia per 72 giorni dai pacifisti Clinton e Blair. E Gentiloni cos’ha fatto? Si è trasformato in un anchorman della Cnn, ripetendo a macchinetta la storiella delle armi chimiche: c’è mancato poco che si mettesse in posa con la mano davanti alla bocca come Roberto Saviano e postasse la foto su Instagram con l’hashtag del Dipartimento di Stato. Timore reverenziale? Allora non fare il premier, fai altro nella vita. 

Visto che la Merkel ha chiamato fuori il suo Paese dal pantano preventivo della Siria dopo che l’esecutivo che guida ha concesso tutti i permessi al consorzio della pipeline Nord Stream 2, avversata come la morte dagli Usa poiché ritenuta la chiave di volta della dipendenza energetica europea della Russia e quindi una potenziale dinamo di avvicinamento politica fra i due soggetti, prodromo magari della fine alle sanzioni che stanno massacrando soprattutto le aziende tedesche e italiane con il loro export, Gentiloni poteva afferrare un’occasione simile al volo, dimostrando in un sol colpo fiuto politico e indipendenza? Manco per sogno. In compenso, circolano voci sempre più insistenti di un veto del Dipartimento di Stato sul nome di Matteo Salvini, proprio a causa della sua troppa simpatia per la Russia e per Vladimir Putin, tanto da aver preannunciato proprio lo stop alle sanzioni economiche in caso di suo approdo a Palazzo Chigi. 

Non c’è niente da fare, la sinistra italiana ce l’hai nel dna di fare da scendiletto agli interessi Usa. E qui arriva la seconda variabile che avrebbe dovuto spingere Gentiloni a maggiore prudenza, se non per dignità politica e nazionale, quantomeno per pragmatismo. Quali sono gli interessi Usa? L’America, oggi come oggi, è quanto mai spaccata in due, visto che il Deep State persegue una sua agenda e Wall Street un’altra, salvo incontrarsi per un punto: la contrapposizione netta a Donald Trump, accettato solo come potenziale capro espiatorio dei danni futuri che proprio i due soggetti dominanti scateneranno per ottenere ciò cui ambiscono. Sopra ogni cosa, però, c’è la sopravvivenza del dollaro come valuta di riferimento e quella del casinò finanziario, una scommessa da qualche centinaio di triliardi legati tanto ai tassi di interesse quanto al flusso di biglietti verdi nel sistema. Insomma, tutti hanno qualcosa da guadagnare dal caos imperante, ma anche molto da perdere. L’America, di fatto, è però unita nelle sue componenti di potere e governo da un’unica priorità: dissimulare e nascondere la realtà. Wall Street deve nascondere la terza peggior bolla della storia, Trump i guai personali e il Pentagono le attività poco edificanti compiute proprio in Siria attraverso il finanziamento e l’addestramento dei ribelli in chiave anti-Assad. La guerra, insomma, fa comodo a tutti e tre, perché quando si parla di missili e testate nucleari, la gente teme per sé e la propria famiglia e non pensa ad altro. Almeno, non lo fa in maniera ossessiva e tale da informarsi su come davvero stiano le cose. 

In una situazione simile, quindi, non serve svendersi ma sapersi vendere: Gentiloni non lo ha capito. Non ha capito, di fatto, che l’America è un Paese senza guida o, almeno, con una guida alternata: l’uno contro l’altro, ma tutti accomunati dalla necessità che gli altarini restino tali. Perché, quindi, schierarsi in quel modo sul fronte bellicista, di fatto chiudendo la porta in faccia all’apertura di credito senza precedenti avanzata da Vladimir Putin? Tanto più che, oltre a sanare l’espulsione dei due diplomatici russi dal nostro Paese operata anch’essa in ossequio al principio di sudditanza, questa mossa avrebbe immediatamente garantito al nostro Paese un ruolo di ago della bilancia mediatoria, un qualcosa che andrebbe salutato come manna dal cielo visto l’incrinarsi dell’asse franco-tedesco e le mire egemoni di Macron sull’Unione, politica economica in testa. E invece, nulla. 

Terzo, mai come oggi era facile capire che in atto c’è un enorme gioco diplomatico di dissimulazione, visto che alla base di tutto c’è la sopravvivenza del sistema in tempi di exit strategy da un periodo di monetizzazione del debito ed espansione monetaria senza precedenti. La Fed sta suicidamente ma giocoforza alzando i tassi e si attacca ai famosi “shock esterni” per cercare di prendere tempo, la Bce ha annunciato la fine del Qe con l’anno in corso, ma, stranamente, sta comprando bond corporate con il badile, quasi a voler salvare il salvabile prima che sia tardi e l’intera nave vada a picco. La Russia? Questi grafici ci mostrano come le sanzioni personali stiano facendo male, nel breve termine, all’economia, non tanto a livello strutturale, quanto psicologico: l’aver messo nel mirino singoli oligarchi sta infatti facendo vacillare lo status di Paese amico, poiché ogni miliardario del globo si sentirà a rischio di finire nella black-list occidentale se percepito, a torto o ragione, come troppo vicino al Cremlino. 

E la Cina? La Cina resta il nodo, il vero nodo e sapete perché: l’impulso creditizio della Pboc, ovvero il diluvio di liquidità liberato sotto varie forme da Pechino, ha di fatto non solo sostenuto il sistema finora, ma permesso anche alla Fed di vendere la narrativa dell’economia che scoppia di salute: senza il cash del Dragone e con i tassi in rialzo, Wall Street sarebbe già sprofondata, altro che Fang e crisi dei titoli tech. Ora, guardate queste due immagini: la prima mette in relazione proprio l’impulso creditizio cinese con il ciclo dei prezzi delle commodities, di fatto il pane per un Paese di produttori instancabili e bulimici come la Cina. Ma anche la cartina di tornasole dello stato di salute dell’economia globale: e, state certi, non sta benissimo. La seconda immagine testimonia invece il mio disperato modo di lavorare, ovvero scroccare giornali esteri in libreria e fotografare gli articoli che ritengo interessanti, salvo poi cavarmi gli occhi per leggerli con calma. Bene, quell’articolo era pubblicato sul Financial Times di ieri e spiega tutto: sia la scelta di porre l’alluminio in testa alle materie prime cui imporre dazi negli Usa, sia la scelta di colpire singole entità russe con le nuove sanzioni, sia la crescente tensione formale sulla Siria, alternata però dai repentini cambi di narrativa di Trump attraverso i suoi tweet. 

 

Tutto si tiene ma alla fine, tutto è nato e tutto rischia di morire con la liquidità cinese: a cosa sono serviti i dazi, forse ad aiutare i lavoratori Usa o la manifattura? No, a porre pressione su Pechino affinché inondi ancora un po’ il mercato, nell’attesa che un casus belli o una bella crisi da far esplodere nell’eurozona a fine Qe, permetta alla Fed di bloccare il rialzo dei tassi e invertire la tendenza, ricominciando a stampare e garantendo a Wall Street la sopravvivenza. L’articolo parla chiaro: attaccare la Russia attraverso i suoi oligarchi, significa attaccare in maniera proxy e dissimulata proprio il mercato delle commodities, obbligando la Cina a intervenire sul mercato per tamponare il gap creato dall’esclusione forzata dei soggetti russi sottoposti a sanzioni. 

Pechino potrà far andare fuori controllo la crisi economica russa, di fatto perdendo un alleato chiave nel progetto infrastrutturale della “Nuova via della Seta” e del petro-yuan, dopo il successo del lancio dei futures sul greggio denominati in renmibi? No. E poi, anche politicamente, l’attacco al dollaro e alla supremazia Usa necessita di Mosca, non fosse altro che come pontiere geostrategico con l’altro grande alleato comune, soprattutto a livello economico e di industria difensiva, quell’Iran finito nel mirino del Deep State e del Pentagono che è il vero obiettivo della rinnovata tensione siriana, ma, anche in questo caso, per procura. È Israele a voler forzare la mano, non certo Trump. Il quale, fra meno di un mese, sarà chiamato a decidere proprio del futuro dell’accordo con Teheran sul nucleare: quello sarà il vero snodo, anche in chiave Opec. 

E voi pensavate invece che tutto questo fosse riconducibile unicamente alla bufala del gas sui bambini, quelli lavati con acqua corrente e curati con il Ventolin? E, peggio ancora, pensavate davvero ci fosse una guerra commerciale reale in atto e che un presidente Usa annunciasse bombardamenti su Twitter? Sono tutti sulla stessa barca, l’interconnessione del sistema è totale: se salta il primo, viene giù tutto il domino. Purtroppo, pare che invece Gentiloni lo credesse, che credesse alle narrative ufficiali, alle favole. Almeno c’è da sperarlo, perché la versione alternativa sarebbe la sua volontà – per conto di poteri davvero forti – di sabotare la nascita di un governo sgradito, ancorché uscito da democratiche elezioni. E quando l’Ocse, come accaduto ieri, dice chiaro e tondo che il nostro Paese necessita di una patrimoniale per ridurre le disuguaglianze, sta dicendo che Forza Italia non deve vedere nemmeno la fotografia del governo. E con essa, la parte del Pd meno gestibile. Mentre l’Europa, lancia a freddo la crociata contro la Chiesa per l’Ici. Che strane coincidenze. 

Vi sembra uno scenario troppo ampio? Aspettate. E vedrete.