L’annuncio della partnership strategica fra Bancoposta e Intesa Sanpaolo ha preceduto di poche ore quello dell’acquisizione della Banca Interprovinciale da parte di Corrado Passera, attraverso la sua nuova Spaxs. La coincidenza è singolare anzitutto perché è stato Passera l’artefice nella nascita del Bancoposta come moderno intermediario di servizi finanziari e poi dell’ultima fase di crescita di Intesa Sanpaolo. E perché, d’altra, parte, il ritorno in campo del banchiere avviene in una fase di forte accelerazione del riassetto creditizio in Italia.
Giusto vent’anni fa – allo zenith della grande stagione delle privatizzazioni – fu Carlo Azeglio Ciampi (ministro del Tesoro nel governo Prodi-1) a chiamare Passera come amministratore delegato delle Poste, allora ancora del tutte pubbliche. In quell’epoca il giovane banchiere cresciuto alla scuola di Carlo De Benedetti era al vertice operativo dell’Ambroveneto, sul punto di fondersi con Cariplo nell’originaria Banca Intesa. Ma proprio qui Passera ritorna quattro anni dopo come Ceo, non prima di aver trasformato il vecchio gestore dei servizi postelegrafonici in un gigante bancario con 14mila sportelli, offrendo competitivi servizi finanziari di base a una clientela sempre più tagliata fuori dalle banche retail privatizzate.
A Intesa – al fianco di Giovanni Bazoli – Passera resta per ben nove anni: prima pilotando la maxi-fusione con Sanpaolo-Imi e poi affrontando con successo le estreme turbolenze finanziarie seguite al 2008. È nel pieno dell’emergenza 2011, che il banchiere viene chiamato nella squadra del governo Monti, come ministro dello Sviluppo economico, anche se le ambizioni politiche conoscono la stessa battuta d’arresto del premier alle elezioni 2013. Da allora Passera ha saggiato dapprima – senza successo – una possibile ripartenza politica come candidato sindaco di Milano, con il movimento Italia Unica. Dopo un’ulteriore pausa di attesa ha deciso di rivestire i panni del finanziere: con una “spac”, un veicolo d’investimento appena quotato all’Aim della Borsa Italiana, con una dote di ben 600 milioni raccolti sul mercato. E la prima operazione non si è fatta attendere.
In sé Banca Interprovinciale – una Spa fondata una decina d’anni fa a Modena da un gruppo di imprenditori locali – è una realtà di dimensioni e operatività limitate, ancorchè su uno dei migliori mercati d’Europa per famiglie e imprese. Ma difficilmente sbaglia chi vede nell’Interprovinciale targata Passera soprattutto un’ulteriore piattaforma a valle di Spaxs: un veicolo che conduce il banchiere all’interno del sistema bancario vigilato e lo ri-accredita pienamente come candidato protagonista del consolidamento bancario in arrivo. Passera, del resto, si era affacciato anche sulla crisi Mps, ma era stato tenuto fuori dai tentativi di salvataggio operati dai governi Renzi e Gentiloni: peraltro non riusciti. Tanto che il Monte è stato ripubblicizzato (e dovrà essere gradualmente riprivatizzatizzato, partendo quanto prima), mentre il Pd ha perduto elezioni e guida del governo. Ma le opportunità di intervento, in questa fase, sono più d’una per un banchiere di lungo corso dotato di mezzi adeguati alle spalle: basti pensare al Credito valtellinese, appena salvato e “ricomprato” per 700 milioni da un pool di fondi guidati da Mediobanca.
Nel frattempo, Intesa Sanpaolo e Poste sono uscite allo scoperto con una partnership che in altri tempi avrebbe destato più sensazione mediatica. Anzitutto perché sembra porre fine a una fase lunghissima e contrastata di aggiustamenti progressivi dei rapporti fra sistema creditizio e Bancoposta: ancora negli anni ’90 i postamat non funzionavano negli Atm bancari e viceversa i bancomat. E in Abi e dintorni il Bancoposta e la sua “concorrenza sleale” erano sinonimo di male assoluto. Nel 2018, la prima banca del Paese e Bancoposta annunciano di voler fare cross-selling di vari prodotti – dagli strumenti di pagamento, al risparmio gestito, ai mutui – presso le rispettive reti commerciali. L’obiettivo da manuale è quello di accrescere reciprocamente i ricavi: anche se è vero che dove c’è uno sportello postale, anche in comuni sperduti, c’è anche quasi sempre uno dei 4.700 punti di Intesa Sanpaolo lungo la penisola.
Dell’operazione colpiscono in ogni caso un paio di aspetti di congiuntura politico-finanziaria ancora in parte da scoprire. Il primo è che Poste Italiane (ormai bancocentrica nella struttura), è quotata in Borsa da fine 2015 dopo un primo collocamento del 35%, ma è tuttora pubblica. Per la precisione: il Mef ne controlla il 29,6% mentre il 35% è della Cassa depositi e prestiti (ancora Mef con Fondazioni bancarie al 18%). Un secondo collocamento – con la sostanziale privatizzazione – era in programma per l’ultima fase della legislatura, ma è stata bloccata dal Pd in chiave pre-elettorale. Il dossier sarà in evidenza sulla scrivania del successore di Pier Carlo Padoan, chiunque sarà. Ma evidentemente ora con un elemento in più: un’alleanza operativa decisa con Intesa Sanpaolo. Che è un gruppo privato attivo sul mercato non diversamente da UniCredit o BancoBpm, Mps o le 300 Bcc.
Perché il BancoPosta pubblico ha scelto – un po’ di corsa – Intesa Sanpaolo e non altri? Perché questa decisione è stata presa in questa fase di transizione politica delicata e per molti versi inedita? Il link-Cdp fra Poste e Intesa – controllata dalle maggiori Fondazioni – è una traccia tutt’altro che nascosta. Per di più la stessa Cdp, su invito tacito del governo in proroga, è stata protagonista in questi giorni dell’inattesa mossa su Tim, a protezione della rete tlc nazionale dalle mire di Vivendi.
In questa strana primavera “Italia 18” i fatti sono come sempre mescolati alle congetture, i tentativi analitici ai giudizi di valore. La novità è che gli avvenimenti economico-finanziari sembrano prescindere dalle dinamiche politiche: per le cui lentezze e contorsioni, evidentemente, l’Azienda-Paese non ha più tempo da spendere. Sembra invece apprezzare – anche solo in modo tacito – che chi può prendere decisioni le prenda: magari con meno riguardo per il galateo liberista in voga da trent’anni, ma oggi molto meno. E comunque per una Cdp che si muove come una finanziaria d’investimento – ma in fondo lo è – c’è un banchiere italiano di lungo corso che compra banche italiane con capitali per una volta raccolti sul mercato e non affidati ai mercati internazionali per non essere più rivisti.