Domanda semplice semplice: se qualcuno vi accusa di fare qualcosa di poco ortodosso e voi sapete che in parte ha ragione, come vi comportate nell’immediato? Dissimulate, in ossequio a un po’ di coda di paglia o fate esattamente ciò di cui siete accusati? Immagino la prima risposta, almeno così farei io. Non la Cina, però. La quale ieri ha lasciato chiudere diligentemente i propri mercati, ha atteso che quelli europei arrivassero all’ora di pranzo tutti in positivo (e con Piazza Affari sugli scudi) e alla faccia dell’accusa mossa solo il giorno prima da Donald Trump di manipolazione monetaria, ha tagliato i requisiti di riserva delle principali banche del Paese dell’1%, una mossa destinata a liberare liquidità nel sistema per un ammontare di circa 400 miliardi di yuan a partire dal 25 aprile prossimo. Della serie, la Casa Bianca può dire ciò che vuole, noi facciamo ciò che riteniamo giusto. E, soprattutto, necessario. 



Attenzione, però. Perché il segnale inviato da Pechino è duplice: da un lato di fiducia, segnalando ai mercati che se c’è da intervenire, il Dragone non si pone troppi problemi di “comunicazione” come fanno Fed e Bce. Dall’altro, però, fa riflettere una mossa di espansione monetaria simile nello stesso giorno in cui veniva reso noto un robusto +6,8% di crescita del Pil nel primo trimestre dell’anno, in linea con la lettura degli ultimi tre mesi del 2017 e con le attese degli analisti. Inoltre, anche se a livello di Pil nominale un rallentamento è nelle corde, visto che la previsione su base annua per il primo trimestre parla di un +10,2% contro l’11,1% dell’ultimo trimestre dello scorso anno, parliamo comunque di dinamiche non certo emergenziali. A meno che il fatto che dall’inizio del 2015, il Pil cinese si sia mosso nel range compreso fra 6,7 e 7% non voglia dirci che l’attuale forza è da attribuire a una lettura eccessivamente ottimistica – o dopata, fate voi – del dato relativo al rallentamento di tre anni fa. 



Insomma, lo stato di salute reale della Cina resta un mistero, in alcune sue componenti. Vedi l’export, ad esempio, in un regime di dazi che ancora non mordono ma anche di rallentamento globale, ovvero di capacità di spesa ridotta per i partner commerciali. Senza contare la spada di Damocle che incombe su qualsiasi calcolo o ragionamento si voglia fare al riguardo, ovvero i numeri e la sostenibilità reale di quella bomba a orologeria finanziaria chiamata “sistema bancario ombra”. Una cosa, però, è chiara: la Cina ha dato ancora un po’ di gas al suo personalissimo Qe nel giorno in cui comunicava al mondo di crescere poco meno del 7%. Qualcosa scricchiola. Cosa potrebbe essere, al netto dei numeri reali del Dragone? 



Ciò che vi ripeto da tempo, ovvero che senza l’impulso creditizio globale di Pechino, non solo la Fed non potrebbe permettersi la pantomima del rialzo dei tassi e la Bce la prosecuzione – ancorché sempre meno convinta e convincente – della narrativa riguardo la grande ripresa dell’eurozona, ma i mercati sarebbero magari non a zampe all’aria ma con un fiatone preoccupante. Giova ricordare, infatti, che Wall Street è sì il traino globale in fatto di equities, ma anche che percentualmente i rallies fin qui vissuti sono stati garantiti dai buybacks azionari operati da aziende che si finanziano emettendo debito a costo zero: senza la liquidità circolare cinese, i rialzi operati dalla Fed avrebbero fatto sentire il loro effetto in maniera molto più netta, portando a una diminuzione del volume di acquisti – resi meno profittevoli dall’aumento del costo delle emissioni per finanziarli – e quindi a un ritracciamento degli indici, oltre che a un ridimensionamento delle valutazioni (e di bonus e dividendi conseguenti). 

Insomma, la Cina sta reggendo il baraccone. Ma se anche il Dragone comincia a eccedere nei segnali di dubbia interpretazione delle proprie mosse, qualcosa comincia a puzzare. E infatti, guardate questo grafico: perché gli hedge fund stanno vendendo titoli azionari come se non ci fosse un domani, smobilitando posizioni come se sapessero qualcosa in anticipo? Sono come i lupi, che annusano l’aria per capire se arriverà la tormenta? Il problema è che il grafico parla drammaticamente chiaro a livello di correlazioni storiche: simili attività di vendita sono comparse prima di tonfi, come ad esempio nel 2007, quando il mercato sembrava destinato a salire in eterno, avendo scoperto l’elisir di immortalità e salute chiamato subprime. Come si andata a finire, lo sappiamo tutti. 

Ma attenzione, perché dalla Cina è arrivato anche un altro segnale, più politico che economico, tutto da interpretare. L’aumento dei rendimenti, ancorché non eclatante, aveva fatto pensare da più parti a una ritorsione cinese sui Treasuries Usa che detiene in risposta ai dazi imposti da Washington. Ebbene, non è così. Pechino ha comprato, invece, a febbraio, stando ai dati resi noti lunedì dal Tic. Per l’esattezza un controvalore di 8,5 miliardi di debito Usa, l’ammontare maggiore fra tutte le nazioni creditrici degli Usa e ai massimi da sei mesi. Chi ha venduto, allora? Ce lo dicono questi grafici: la Russia, che ha scaricato carta da parati Usa per il terzo mese di fila, portando le sue detenzioni totali ai minimi da un anno, ma soprattutto un creditore di primissima categoria come il Giappone, il quale ha venduto Treasuries per 6,3 miliardi dollari a febbraio, il massimo scaricato da una singola nazione in quel mese e una cifra che ha portato le detenzioni totali di Tokyo addirittura ai minimi da inizio 2012. 

E se la mossa di Mosca appare dichiaratamente politica, quella nipponica fa pensare: a Tokyo qualcuno teme davvero una crisi innescata dal rialzo dei tassi, la quale facilmente potrebbe avere come epicentro iniziale i mercati emergenti, in una sorta di rievocazione del taper tantrum scatenato da Ben Bernanke? Oltretutto, da ieri il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, si trova a Washington in visita a Donald Trump, come spiegherà all’alleato la mossa del suo ministero del Tesoro? Serviva fare cassa per qualche mancia politica finalizzata a oscurare lo scandalo che sta facendo traballare il governo? O Tokyo si sente ringalluzzita, perché ha pescato il jolly dal mazzo? Il Giappone avrebbe infatti trovato il modo di portare in superficie, poco alla volta, un tesoro di oltre 16 milioni di tonnellate di “terre rare”, i materiali fondamentali per la produzione – ad esempio – dei magneti per veicoli ibridi e laser. E il tutto, non in un arco temporale limitato, ma, pare, per diversi secoli. 

Il Giappone, dunque, sarebbe in grado di strappare alla Cina il suo dominio sul settore: praticamente, una rivoluzione nel vero senso del termine, se parliamo di tecnologia ai massimi livelli, dall’informatica alle comunicazioni al settore bellico-industriale. Le analisi condotte hanno rivelato che, in fondo ai mari, c’è abbastanza materia per coprire 730 anni di domanda globale di disprosio, un elemento usato nei magneti per veicoli ibridi, appunto e l’equivalente di 780 anni di applicazioni per l’ittrio, utilizzato nei laser. Inoltre, c’è anche una potenziale fornitura (per 620 anni) di europio e terbio 420, utilizzati nei composti fluorescenti e nelle celle a idrogeno. La notizia che i tecnici hanno messo a punto una tecnologia per estrarre le risorse – pubblicata sulla rivista britannica Scientific Reports sul finire della scorsa settimana –  ha fatto volare le azioni di società minerarie e costruttori di macchine del Paese asiatico. 

In particolare, le azioni delle aziende con piattaforme galleggianti, “Modec” e “Mitsui Mining and Smelting”, integrate in un consorzio che studia le tecnologie per estrarre le preziose risorse, salite in Borsa rispettivamente del 7,74% e del 2,26% venerdì scorso. Si tratta della prima volta che viene quantificato il volume di queste riserve scoperte sul fondo del mare nei pressi dell’isola di Minami Torishima (circa 1.900 chilometri a sud-est di Tokyo) nel 2012, ma allora, data la profondità (più di 5 chilometri), sembrava impossibile sfruttarle commercialmente. Scommettete che la presenza militare americana in Giappone si farà sempre più pressante, dopo lo shopping di armamenti che Donald Trump è riuscito a imporre ad Abe, facendogli aumentare le spese per la difesa in maniera mostruosa all’interno del budget, con la scusa della minaccia nordcoreana, ovviamente svanita nel nulla a favore dell’allarme siriano? Vedrete che, sentita la notizia e quando ci sarà la conferma della sfruttabilità dei giacimenti, Pyongyang tornerà un pericolo prioritario: e a Tokyo verrà fatto intendere che senza l’amicizia e il sostegno Usa, quel rischio crescerebbe esponenzialmente. Si accettano scommesse. 

Ma se dall’Asia arrivano segnali discordanti e tendenti al preoccupante, ecco che è ancora la Germania a far parlare di sé, dopo l’irrituale richiesta della Bce a Deutsche Bank di un contingency plan in caso di smobilitazione del desk di investment banking: lo Zew, l’indice di fiducia delle aziende tedesche, ieri ha infatti fornito una lettura a dir poco deludente, scendendo ad aprile a -8,2 punti contro il +5,1 di marzo, dato ai minimi dal novembre 2012. Cosa accade alla locomotiva d’Europa, in questo caso alla sua industria e manifattura, quindi al suo export? Per Achim Wambach, presidente dell’Istituto Zew, «le ragioni di questa contrazione delle aspettative si possono trovare principalmente nel conflitto commerciale internazionale con gli Stati Uniti e nella situazione siriana. Anche il significativo calo della produzione, delle esportazioni e delle vendite al dettaglio in Germania nel primo trimestre del 2018 sta avendo un effetto negativo sullo sviluppo economico futuro». 

E se il dato ha fatto immediatamente deprezzare l’euro nel cross sul dollaro, dopo le vendite di biglietti verdi seguite lunedì alle accuse di Trump contro la Cina per la svalutazione dello yuan (stranamente, a Washington ieri nessuno si è lamentato per la nuova ondata di liquidità liberata dal Dragone), questi grafici ci mostrano come sul lungo periodo, la guerra delle svalutazioni monetarie – e quindi della conquista di un posto al sole globale per l’export – potrebbe vincerla proprio l’inquilino della Casa Bianca, assestando potenzialmente un colpo ancora più duro alle esportazioni tedesche a causa del conseguente apprezzamento dell’euro. Il secondo grafico, in particolare, ci mostra una dinamica che è letta dai traders con un ottimo indicatore di tendenze monetarie su medio termine, con circa 20 mesi di anticipo. È quella dei pagamenti in dollari nel sistema internazionale Swift, i quali vedono il biglietto verde perdere appeal a causa, principalmente, della rapida e impetuosa crescita di Cina e India: nonostante questo, circa il 63% delle riserve monetarie mondiali sono ancora denominate in dollari ed è questo mismatch, destinato a ridursi nel tempo, a giocare potenzialmente a favore della valuta Usa. 

Ultima criticità, stando a un report pubblicato lunedì dal prestigioso think tank tedesco Macroeconomic Policy Institute (Imk) di Dusseldorf, le possibilità di recessione per l’economia di Berlino nei prossimi tre mesi sono salite al 32,4%, un livello di probabilità più alto di quello raggiunto nel marzo 2008, quando sui mercati della liquidità entrarono in gioco i nuvoloni neri pre-Lehman. I timori, infatti, per la Germania sono duplici, legati alla crescita per la guerra commerciale e monetaria, ma anche connessi ai possibili spillovers auto-alimentanti e auto-rinforzanti di una crisi di liquidità globale che tracimi nell’economia reale. Insomma, la lotta titanica fra Usa e Cina a colpi di dazi, rischia di avere come prima vittima la Germania. Quindi, l’eurozona. 

Solo un caso? E, stante queste criticità che la stampa autorevole si guarda bene dal rendere note con la dovuta visibilità, sarà per questo che ieri, parlando di fronte alla Plenaria del Parlamento di Strasburgo, Emmanuel Macron ha aperto il vaso di Pandora, evocando il rischio di una guerra civile in Europa? Ancora una volta, l’eurozona pagherà il prezzo più alto alla crisi finanziaria in arrivo e alla conseguente recessione dell’economia? Temo di sì. E noi rischiamo di avere Di Maio e Salvini a gestire la situazione. Auguri.