Altro che flat tax. Piatta sì, ma com’è piatta una lapide tombale sulle speranze di ridurre le tasse italiane. L’ha scolpita su misura per le velleità delle nostre forze politiche uno scalpellino cattivo che si chiama Fondo monetario internazionale il quale ricorda al mondo – nel suo “Fiscal monitor” – che l’Italia è malata grave di debito pubblico, e che quindi al primo posto della sua agenda dev’esserci “l’avvio di un consolidamento fiscale credibile e ambizioso per porre il debito su un solido percorso discendente”. Come ottenerlo, questo cambio di passo? I consigli sono i soliti, monotoni come una giaculatoria: “Il taglio della spesa primaria corrente, il sostegno alle fasce più deboli, l’aumento degli investimenti e la riduzione del carico fiscale sul lavoro, con un ampliamento della base imponibile e”… E qui arriva l’acuto che non ti aspetti: “Uno spostamento verso la tassazione delle ricchezze e degli immobili e dei consumi”. Tradotto: più Imu sulle case, più Iva e stangata patrimoniale su depositi, conti correnti eccetera.



Attenzione: non è la Bibbia, non è un diktat. Non dà dettagli su “che tipo” di patrimoniale. Conoscendo la mentalità yankee degli scriventi, è logico pensare che vogliano colpire soprattutto la casa e il prelievo alla fonte sulle rendite dei titoli di Stato, ancora basso rispetto a quello sulle emittenti private. Ma, al netto di queste domande impossibili, quando le (cosiddette) teste d’uovo del Fondo prendono la penna, bisogna ricordarsi che dietro la loro mano si muove quella del Mercato con la “emme” maiuscola e la faccia cattiva. Lo stesso “Mercato” che da qualche tempo guarda con distacco ai nostri Btp: come ha gelidamente detto Dan Ivascyn, capo degli investimenti del più grande gruppo mondiale nel settore degli investimenti obbligazionario, cioè Pimco, “sul debito italiano siamo piuttosto neutrali, lo siamo da qualche tempo: l’economia va bene ma c’è incertezza politica”. Chiaro?



All’Italia delle baruffe sulla maggioranza impossibile, dei “programmi per allodole”, che spaziano da infinanziabili redditi di cittadinanza a chimeriche tasse piatte, il Fondo monetario dice quasi testualmente: o tagliate il debito, o per noi i vostri Btp diventano cartaccia. Il che, per uno Stato famelico che ha bisogno di piazzare ogni mese sul mercato in media oltre 40 miliardi di euro di debito pubblico, è una specie di incubo.

Il Fondo elegantemente non approfondisce il capitolo dei suggerimenti sul “come” raggiungere l’obiettivo del calo del debito, ma è evidente che le previsioni che invece pubblica sull’andamento del rapporto italiano tra debito e Pil non lo convincono. Prevedono che, a legislazione costante, il rapporto tra debito e Pil nel nostro Paese calerà al 129,7% nel 2018 e al 127,5% nel 2020, per poi scemare ulteriormente fino al 116,6% nel 2023. Ma prevedono anche che la spesa pubblica si riduca al 48,2% quest’anno per poi risalire al 48,4% il prossimo e le entrate passeranno dal 46,75 al 47,5%. Altro che abolire la Fornero e ridurre le tasse.



Non dimentichiamoci da dove proveniva Carlo Cottarelli, il più autorevole tra i commissari alla spending review che l’Italia abbia avuto finora, e che per questo – cioè per non avere ombra da nessuno – Matteo Renzi, ex premier rottamatore del Pd, esiliò ed oggi è direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica: dal Fondo monetario internazionale. E proprio Cottarelli, anche oggi su La Stampa, in un intervento di analisi dedicato appunto al documento dei suoi ex colleghi rileva quanto sia grave la crisi del debito pubblico a livello mondiale, a tal punto da far temere una nuova crisi planetaria, come quella del 2008-2009: “Una cosa è certa: prima o poi ci saranno sorprese negative – avverte Cottarelli -. La domanda cruciale è se l’economia globale sia in grado di assorbire tali shock facilmente oppure se la crescita che stiamo sperimentando sia troppo fragile. Abbiamo raggiunto un livello adeguato di resilienza? Temo che la risposta debba essere negativa. Il problema principale è l’accumulo di debito privato e pubblico”, “nel 2016 il debito del settore non finanziario aveva raggiunto i 150 trilioni di dollari (il 225 per cento del Pil mondiale), di cui due terzi costituivano passività del settore privato. Da allora il debito è aumentato ulteriormente. I tassi di interesse bassi hanno spinto gli investitori verso strumenti finanziari a maggior rischio e la quota di obbligazioni di bassa qualità negli indici obbligazionari dei Paesi avanzati è aumentata”. 

E conclude: “La domanda è se la storia possa ripetersi, se, in altri termini, gli effetti di uno shock di origine monetaria (un aumento più rapido del previsto dei tassi di interesse) o uno shock di origine ‘reale’ (una recessione) non possano essere ingigantiti dall’esistenza di questa montagna di debito pubblico e privato. Si noti che, anche a livello di Paesi, gli squilibri continuano ad approfondirsi. I Paesi creditori (i principali essendo Cina e Germania) continuano ad accumulare avanzi di partite correnti, il che significa un ulteriore aumento della loro posizione creditrice verso il resto del mondo. In conclusione, la crescita prosegue ma la sua resilienza a shock che prima o poi si verificheranno non appare certo assicurata”.

Con tutta la prudenza del gergo dei banchieri centrali, il messaggio è chiaro. L’Italia vive sull’orlo di un burrone chiamato debito. E potrebbe essere la prima a pagare il costo di una crisi mondiale. Addio sogni di gloria.