Il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, ieri ha dato qualche indicazione sul futuro della politica monetaria della Bce. In particolare, parlando di inflazione, le parole scelte sono state queste: “Le incertezze rimanenti consigliano ancora perseveranza e prudenza riguardo la politica monetaria.” “Un alto grado di stimolo monetario rimane necessario.” Nel discorso fanno capolino i timori di guerra commerciale e l’esigenza, soprattutto per le economie più indebitate, di ridurre il debito e creare margini di sicurezza fiscali. Riguardo alla crescita si nota una frase “sibillina”: “Nonostante gli ultimi indicatori suggeriscano che il ciclo di crescita abbia toccato il picco, la fase di crescita è attesa continuare”. La “novità” è la fase del ciclo che ha toccato il picco.
L’ultimo aggiornamento sulla politica monetaria europea non consegna una sensazione di imminenti strette monetarie. La guerra commerciale si combatte e si sta combattendo anche con l’uso del cambio e a nessuno in Europa, a partire dalle imprese tedesche, interessa assistere a un repentino rialzo dell’euro. Le tensioni geopolitiche emerse chiaramente una settimana fa con il bombardamento in Siria sono un elemento impossibile da ignorare. Infine, nonostante otto anni di politiche ultra-espansive, rimangono evidenti le cicatrici della crisi del 2008. I debiti pubblici di tutte le economie avanzate sono esplosi o come risultato dell’austerity, come nel caso italiano, o di politiche anticicliche con cui si sono salvate banche e imprese e con cui, soprattutto in America, si è permesso che il consumatore non smettesse di comprare. Nelle banche rimangono scorie evidenti, in quelle italiane per esempio, e nascoste; Deutsche Bank rimane chiacchieratissima con il titolo ai minimi di sempre e, soprattutto, il credit default swap che nelle ultime settimane ha fatto per due e oggi viaggia a valori ben superiori rispetto a quelli di Intesa Sanpaolo.
A nessuno probabilmente interessa, in questa fase, provare a scoprire cosa succede a ritirare i flussi garantiti dalle banche centrali e nessuno si sente così sicuro da procedere senza la massima prudenza. Nelle pieghe dei mercati si può rintracciare una crescente convinzione che le politiche delle banche centrali continueranno a essere accomodanti o che, quanto meno, il percorso di normalizzazione sarà rinviato e più lento di quanto si credesse un anno fa. Non è una coincidenza che alcune delle valvole di sfogo della liquidità, per esempio i Bitcoin, nelle ultime settimane abbiano ricominciato a gonfiarsi; perfino il rendimento del decennale italiano, con le trattative per la formazione del governo a un apparente punto morto, è sceso.
Il tweet di ieri del presidente degli Stati Uniti contro l’Opec e un supposto tentativo di tenere il petrolio artificialmente alto si può leggere in questa ottica. Nemmeno nel mondo di Trump si può pensare che non si arrivi a mettere insieme l’aggravarsi delle tensioni in Medio Oriente con un rialzo del prezzo del petrolio. Il tentativo dell’Opec di riportare i prezzi a valori sostenibili è in atto da diversi trimestri; il prezzo di equilibrio che assicuri gli investimenti necessari a mantenere l’offerta è più alto dei prezzi attuali. Questo vale anche per i produttori americani il cui miracolo è una funzione della finanza a tassi zero e che oggi per continuare ha bisogno di prezzi sensibilmente superiori a quelli visti negli ultimi due anni. Il male del petrolio che sale con la rapidità delle ultime settimane è forse il rischio di imporre alle banche centrali una frenata che oggi non sembra essere nell’interesse di nessuno né in Europa, né in America.
L’esperimento iniziato nel 2009 per impedire il collasso dei mercati è sostanzialmente ancora in corso; oggi si fa strada l’impressione che non sia ancora stata trovata una soluzione per cui probabilmente si deve immaginare un percorso molto diverso da quello visto finora. Gli effetti delle politiche monetarie si sono visti soprattutto in borsa e molto meno all’esterno. L’assenza di una soluzione impedisce la normalizzazione delle politiche monetarie, tanto più se si fa strada l’ipotesi di una guerra commerciale, o se emergono sacche di nervosismo, dalle parti di Deutsche Bank o del Libor.