Tutto avanza con lentezza su scala mondiale. La crescita esiste, ma è bassissima: è una successione di equilibri subito dismessi per percentuali di punto con una distribuzione internazionale che è quella di sempre, tra le centrali dell’accumulazione capitalistica che sono storiche (Usa ed Europa) e i Brics, che oggi non abbiamo ancora deciso come teoricamente identificare, se non come motori di una crescita anch’essa lentissima. Tutto è squilibrato e tutto è fuori squadra. Ma lentamente emergono segni di riassestamento. La Germania e quindi l’Europa sprofondano nella deflazione che potrebbe essere mortale, ma s’intravedono sprazzi di reazione. Vediamoli.



Il primo è l’aumento salariale contrattuale dei lavoratori dipendenti e pubblici in Germania: non s’investe il surplus commerciale, ma lo Stato come imprenditore collettivo, da un lato, e le imprese con il loro profitto che si destina al salario, dall’altro, devono alimentare la domanda interna e dare quindi respiro a un’economia che altrimenti muore soffocata e con sé rischia di soffocare tutta l’Europa. Questa va in pezzi.



Certo, non v’è dubbio che Macron è niente più ce la caricatura di se stesso. La destra storica francese non gli perdona nulla. Basta leggere le lucide colonne di Natacha Polony su “Le Figaro” per capire che quell’invenzione della banca privata francese e di un segmento della massoneria di rito inglese ostile alla Grande Loggia di Francia ha i giorni contati. La Germania non creerà mai strumenti per la mutualizzazione dei debiti e così si ricomincerà daccapo con la maledizione storica che avvelena l’Europa da dopo le guerre di secessione spagnola del Settecento. Ed era questo che Macron voleva e vuole superare con l’egemonia francese. Ma siamo sempre a dove eravamo con le guerre di successione spagnola settecentesche.



Con la firma del Trattato di Rastatt del marzo 1714, infatti, l’esercito imperiale tedesco non fu in grado di recuperare le terre perdute in Alsazia e Lorena e il Sacro Romano Impero non ottenne vantaggi dalla guerra. E questo era accaduto perché l’imperatore aveva preferito anteporre i propri interessi in Italia e in Ungheria a quelli degli stati tedeschi. Gli Asburgo ottennero poi ulteriori territori quando il principe Eugenio sconfisse gli ottomani nella guerra con la Turchia del 1716-18, ma l’influenza di Vienna sull’Impero iniziò a declinare perché la Germania non riusciva che a mettere in campo delle forze centrifughe: le politiche interne ed estere di Hannover, Sassonia e Prussia continuamente si divaricavano allorché questi stati avevano ottenuto il titolo regale che li equiparava ai privilegi della corona imperiale. Quando tutto doveva unire, tutto invece divideva, per via delle logiche profondamente divergenti delle loro classi dirigenti.

È quello che accade oggi, in un’Europa che non può trovare la sua Prussia come invece accadde per gli staterelli tedeschi, con il terribile accadimento di un Kaiser incoronato nel 1870 a Versailles. Tutto rimane uguale. La storia non si cancella, come non si cancella la geografia. Invece degli eserciti oggi ci sono le coorti tecnocratico-burocratico-partitiche-nazionali che governano il costrutto costituzionale europeo, né federale, né confederale e che produce per questo continui attriti e lotte di potere.

Si guardi a quello che accade con Martin Selmayr, la nomina del quale al vertice dell’amministrazione della Commissione europea ha provocato perplessità e polemiche da tutti i gruppi politici, anche se di fatto è strenuamente difeso dalla Cdu che vede in lui il riferimento essenziale per il potere quasi assoluto che i tedeschi detengono nell’Ue. Il futuro del giurista tedesco di 47 anni, ex capo di gabinetto del presidente Jean-Claude Juncker, appare in bilico. La Commissione Juncker farà la fine della Commissione Santer, costretta a dimettersi prima della fine del mandato, per le accuse gravissime di corruzione che rimasero tuttavia inespresse e che non produssero alcunché sul piano giuridico-civile? Poi giunse Romano Prodi.

“Le istituzioni europee non appartengono agli alti funzionari, ma ai cittadini europei”, ha detto la parlamentare popolare francese Françoise Grossetête facendo prevalere lo spirito di nazione su quello di partito. E quindi l’Europa continua la sua lenta crescita con deflazione che segna la sua emasculazione da qualsivoglia destino internazionale che non sia o l’alleanza con gli Usa o una divisione profonda che può divenire definitiva se l’influenza russa, dal Medio Oriente, dove la grande nazione euroasiatica si è fortemente re-insediata, si trasformasse in alleanza strategica con la Germania.

Nessuno lo sa meglio degli stati maggiori non solo militari, tanto della Russia quanto degli Usa, che con Trump paiono definitivamente fuoriusciti dalle follie dell’unipolarismo (non è escluso che se ne producano altre, naturalmente). Per questo Trump e Putin s’incontreranno: perché sanno che ricostruire la Mesopotamia è l’imperativo principale per stabilizzare l’heartland e il rimland e consentire a una parte dell’Europa di liberarsi dalla deflazione tedesca, Francia in testa.

Per questo il mondo si muove, anche se lentissimamente, e le contraddizioni europee trovano un punto di caduta nei laghi atlantici del Mar Nero e del Mar Caspio e nel Golfo Persico. Per questo l’Arabia Saudita deve tornare a essere un interlocutore condiviso, e non solo degli Usa. Quel periodo e quella strategia sono finite con la sconfitta del Daesh e quindi dell’Arabia Saudita profeta del terrorismo wahabita. Sono rimaste solo macerie e gli “stati canaglia” dell’Iran e della Russia sono più forti di prima. Bisogna passare allora dalla poligamia alla successione di fatto monogamica e bisogna far tacere il terrorismo.

Forse è troppo tardi, ma non si può più alimentarlo, il terrorismo, in forma statuale. I prezzi sono stati troppo alti e persino gli Usa senza Kissinger hanno dovuto accorgersene. Rimane solo da fare i conti, in qualche modo ancora inedito, con l’aggressività neo-nazista cinese. Allora non basterà la lentezza.