Lo spettro dell’Iva si è improvvisamente materializzato e getta la sua ombra sulle trattative per il nuovo governo. Silvio Berlusconi ha parlato di un esecutivo formato dal centrodestra, che nasce di minoranza, ma trova in parlamento i voti necessari, una cinquantina secondo Matteo Salvini. Anche il leader leghista sembra sostenere questa ipotesi da presentare al presidente della Repubblica una volta vinte le elezioni regionali oggi in Friuli-Venezia Giulia e metabolizzato il no del Pd al patto con il Movimento 5 Stelle.



Sergio Mattarella sta preparando il “piano B”, un “governo dei responsabili”, magari guidato dal presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, o comunque da una “personalità di garanzia”. Questo esecutivo avrebbe in cima alle sue priorità economiche di trovare le risorse per sventare quell’aumento delle imposte indirette a partire dal gennaio prossimo, vera doccia fredda su una congiuntura economica già in evidente frenata. Il M5S sembra fare lo gnorri e finora non ne parla, continuando a brandire le proprie, pur variabili, promesse. Lo sa bene invece il Pd che ha sempre spostato in avanti anno dopo anni la tagliola delle clausole di salvaguardia.



Varando il Documento di economia e finanza a legislazione invariata, giovedì scorso, il consiglio dei ministri ha fatto come se l’Iva dovesse aumentare e ha cercato di prevedere la ricaduta negativa sul prodotto lordo. Sono un paio di decimali di punto, ma quel che conta è l’impatto dinamico di una misura del genere. Ancor peggiore sarebbe l’impatto politico. Quanto costa e quali effetti avrà? Fatto il conto della spesa, si tratta di 12,5 miliardi che fanno partire il prossimo governo con un handicap non facile da colmare. È vero che l’Unione europea ha concesso tempo e non chiederà una manovra di aggiustamento (la prossima settimana verranno pubblicate le previsioni di primavera e il 23 maggio le raccomandazioni, quindi vedremo se questa previsione ottimistica si realizza davvero), ma in ogni caso l’Italia deve “restituire” oltre 3 miliardi concessi in extremis al governo (un aiuto che non è servito molto visto il risultato elettorale). Dunque, lo handicap sale a un minimo di 15-16 miliardi per il prossimo anno, grosso modo quel che costa, secondo le stime condivise anche dal M5S, il cosiddetto reddito di cittadinanza.



E che dire della flat tax che poi non sarà così piatta come promesso e consisterebbe in due aliquote alle quali si aggiungono deduzioni e detrazioni per rendere l’imposta progressiva come prevede la costituzione? Qui i conti sono più complicati, ma in ogni caso partono da 40 miliardi di euro l’anno con una aliquota del 23% che arrivano a 60 se si scende al 20% e oltre 100 per il mitico 15% promesso dalla Lega. Di male in peggio. È vero che la riduzione delle imposte sul reddito ha un effetto benefico sulla congiuntura economica, ma gli effetti si vedono nel medio periodo, ben che vada a cominciare dal 2020, mentre lo sfondamento del disavanzo pubblico sarà evidente già nel bilancio del 2019, provocando una immediata reazione dell’Unione europea che chiederà una stretta per rientrare nei parametri, e, quel che è peggio, dei mercati finanziari alzando il premio al rischio per chi compra i titoli di stato.

Standard & Poor’s venerdì ha confermato il rating del debito italiano, tutti hanno tirato un sospiro di sollievo, ma si tratta pur sempre di un pessimo voto in pagella, uno dei più bassi: BBB. Non solo, S&P’s sottolinea che l’Italia deve riprendere il cammino delle riforme, troppe infatti sono rimaste incompiute. Lo stesso ha detto giovedì Mario Draghi, pur non nominando nessun Paese si è riferito esplicitamente a quelli che ne hanno più bisogno. Invece, dal dibattito politico, sia quello elettorale sia adesso quello per il nuovo governo, è stata espulsa persino la parola riforma. In alcuni casi, anzi, si prevedono delle vere controriforme: sulle pensioni la Lega ha promesso di “stracciare” la legge Fornero, sul mercato del lavoro il M5S vuole ripristinare l’articolo 18 (un anticipo lo ha offerto già fatto l’Acea l’azienda municipalizzata romana) e rivoltare come un guanto il Jobs Act.

Dunque, si parte con un ammanco potenziale di oltre 15 miliardi di euro e con impegni di spesa non quantificabili, ma consistenti. I capi grillini sostengono che tra loro e il Pd ci sono alcuni importanti terreni d’incontro (per esempio la lotta alla povertà e gli investimenti pubblici), ebbene sono tutti all’insegna di un aumento delle uscite dello stato e di una riduzione delle entrate certe, quelle fiscali. Altro che fantasma, andando avanti così Iva diventa il macigno che ciascun partito vorrebbe rimuovere senza sapere come, a meno di un rimettere in discussione le incaute promesse elettorali con le quali sono stati attratti gli elettori, o meglio abbindolati e turlupinati spacciando fole, non conquistati con proposte credibili e realistiche.

Se è così, diventa molto difficile trovare un accordo, racimolare una maggioranza, formare un governo. E si fa sempre più probabile la convinzione che una soluzione d’emergenza, di tregua, di responsabilità o comunque il fantasioso lessico politichese lo voglia chiamare, sia l’unica in grado di esorcizzare l’Iva e tutti gli altri spettri economici.