Una singolare tenzone si sta sviluppando in Europa tra Italia e Spagna con la prima nella parte del perdente e la seconda in quella del vincente. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) informa che in termini di Pil pro capite gli iberici hanno superato gli abitanti del Bel Paese. L’Ocse certifica che il sorpasso riguarda anche il costo del lavoro che da noi continua a essere insopportabilmente alto, soprattutto per le tasse che si devono pagare.



Certo, è vero ed è stato ben spiegato che l’Italia conserva ampi margini di vantaggio nella ricchezza complessivamente posseduta, nel reddito da produzione industriale, nelle potenzialità di un’economia che resta tra le prime al mondo nonostante le battute d’arresto e il lento progredire. Ma il segnale è chiaro e sarebbe sbagliato ignorarlo perché il pericolo di fare passi indietro, di perdere terreno, esiste e non si può negare.



L’Italia continua a crescere, sì, ma meno di prima. E comunque a una velocità inferiore alla media europea con la conseguenza di staccarci sempre più dai Paesi partner che invece, in un modo o nell’altro, mostrano un andamento più sicuro e brillante. Tant’è vero che quasi tutti si sono gettati alle spalle i fantasmi della grande crisi mentre noi stiamo ancora lottando per raggiungere i livelli di prima del 2007, quando il mondo ha preso un altro verso.

Tutto questo avviene mentre è difficile formare un governo e, soprattutto, costruire un programma sul quale far convergere almeno due delle forze che occupano la scena politica. Lo sforzo degli attori sembra tutto rivolto a raggiungere una maggioranza numerica e anche se qualcuno comincia timidamente a parlare di contenuti sembra più un modo per prender tempo – nella speranza che alla fine il coniglio esca dal cappello – che una reale convinzione.



Le condizioni a contorno sono favorevoli ma potrebbero presto guastarsi. Lo spread, spauracchio dell’ultimo governo Berlusconi, si mantiene entro limiti accettabili. I tassi d’interesse restano bassi, quasi inesistenti, grazie all’opera preziosa di Mario Draghi alla Banca centrale europea dove resterà ancora un anno a guardia del Quantitative easing che è alla base della liquidità che sostiene la ripresa europea. Ma qualche preoccupazione comincia ad affacciarsi.

Le guerre commerciali minacciate da Trump allargano il perimetro dell’incertezza che in Italia è già molto ampio e riguarda, tra l’altro, la capacità di tenere i conti pubblici sotto controllo in una fase nella quale l’esecutivo uscente non può che attenersi al minimo sindacale, come nel caso del Documento di economia e finanza, mentre il nuovo non compare all’orizzonte e intanto scattano le clausole di salvaguardia per l’aumento dell’Iva.

Quello che servirebbe al Paese – riforme per la crescita, un piano serio per la formazione, investimenti in infrastrutture, taglio dell’imposizione fiscale sul lavoro, un programma straordinario per l’assunzione dei giovani, il rilancio del Mezzogiorno – è occhieggiato qua e là confusamente, ma non si compone in un quadro organico e, anzi, è spesso contraddetto da pregiudizi e comportamenti che risultano tanto anacronistici quanto dannosi.