L’ultima puntata nella saga della “guerra” commerciale iniziata da Trump con le tariffe all’importazione di acciaio sono i dazi cinesi sulle importazioni di 128 tipologie di beni dagli Stati Uniti. Le tariffe si applicheranno, tra gli altri, a prodotti come la carne di maiale, l’alluminio riciclato, frutta, noci. Quale sia l’obiettivo americano è abbastanza chiaro: gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale ormai insostenibile con effetti negativi sul mercato del lavoro interno e sull’indipendenza sostanziale che si ritrova con un flusso di acquisizioni estere crescente, spesso da stati “nemici” sul piano geopolitico, e con un debito pubblico in crescita e sempre più nelle mani di proprietari esteri. La crisi della classe media americana, vittima di una deindustrializzazione che in alcuni stati ha lasciato macerie, è forse la causa principale della crisi dei partiti tradizionali con i repubblicani che sono stati scalati da un personaggio televisivo più che finanziario e i democratici che hanno incredibilmente perso elezioni che sembravano già vinte. La fretta e la determinazione con cui si cerca un colpevole esterno, la “Russia” o “Facebook”, nasconde forse la volontà di togliere l’attenzione da un modello di sviluppo che ha lasciato a piedi la gente normale, ma ha gonfiato la borsa e un piccolo numero di società globali quasi monopolistiche da cui escono pochi posti di lavoro e poche tasse.
Che gli Stati Uniti in quanto tali cerchino un riequilibrio non dovrebbe scandalizzare nessuno; ricordiamo a questo proposito, per l’ennesima volta, che già sotto la presidenza Obama si erano manifestate le prime avvisaglie (con i dazi sull’importazione di tubi). Al cuore della questione non c’è l’impresentabile Trump con il suo corollario di tweet improbabili e rozzezza, ma un modello di sviluppo, quello americano, che è su una traiettoria insostenibile nel lungo periodo. Che gli Stati Uniti cerchino un riequilibrio è nell’ordine delle cose e in un certo senso non dovrebbe nemmeno spaventare. La questione è quanto vogliano recuperare, con quanta fretta, con che modi e con quale attenzione ai possibili danni collaterali.
Tra le aree con cui gli Stati Uniti cercano un riequilibrio c’è anche l’Europa. Un’area che ha scelto come modello di sviluppo le esportazioni, il cambio sottovalutato e la deflazione interna. Il risultato di questo modello è il surplus delle partite correnti tedesco, il più alto al mondo e quasi il doppio di quello cinese e giapponese. Una situazione, che in un’unione che non prevede meccanismi di riequilibrio, ha come unico controbilanciamento possibile la depressione degli altri Paesi membri. Anche l’Europa tedesca è finita nel mirino americano, ma in questo caso a differenza della Cina si tratta di un partner geopolitico strategico soprattutto viste le crescenti tensioni con la Russia. Ci si può aspettare che l’America avrà una mano più morbida con l’Europa e che la richiesta di riequilibrio sarà meno “violenta”.
C’è probabilmente spazio per intavolare trattative ed evitare una rottura. La questione per i nostri piccoli interessi italiani e chi si siederà al tavolo con gli Stati Uniti perché decidere che a essere penalizzate saranno le esportazioni di olio di oliva, di moda o di culatello piuttosto che di wurstel e birra non è la stessa cosa ai nostri fini. Le lamentele dei coltivatori nostrani di pomodori di Pachino dovrebbero farci chiedere quali esportazioni di quali Paesi l’Europa abbia sacrificato e quali no verso i Paesi in via di sviluppo. Siccome un riequilibrio sembra inevitabile e siccome probabilmente ci sarà una trattativa l’Italia dovrebbe uscire dal coro europeo e farsi sentire direttamente con l’alleato americano.
La burocrazia europea è una cosa tedesca e in parte francese; chi si siederà a quel tavolo per rappresentare l’Europa non avrà in mente l’Europa, ma solo un gruppo di Paesi tra cui non c’è il nostro.