In questa strana Italia di mezzo dopo il voto, la magistratura accelera su numerose inchieste intestate a importanti banchieri. Nella stessa giornata di venerdì, alla vigilia del lungo ponte primaverile, il Gup di Milano ha deciso il processo per Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente presidente e amministraore delegato di Mps dal 2012 al 2015; mentre a Bergamo è stato rinviato a giudizio il presidente emerito di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, per una vicenda che ha coinvolto i vertici di Ubi Banca. Giovedì si era intanto appreso che la Procura di Firenze ha chiesto l’archiviazione per un’ipotesi di associazione mafiosa per l’ex vicepresidente di UniCredit, Fabrizio Palenzona.
Tre casi diversi: falso in bilancio sull’utilizzo di derivati per il Monte, poi salvato dallo Stato; manipolazione dell’assemblea in Ubi, che invece ha contribuito a salvare altre banche italiane in dissesto; anomalie nella concessione del credito per UniCredit, che si è salvata da sola, con qualche fatica. Ancora: a Milano i Pm erano contrari al rinvio, mentre per Palenzona si è trattato di un’ennesima virata in sede inquirente (e non è detto sia l’ultima). Il denominatore comune del “venerdì’ nero dei banchieri” va comunque ricercato nell’assortimento dei cognomi: tutti (da Bazoli a Palenzona, da Profumo a Viola a Massiah, Ad di Ubi) esponenti del massimo livello dell’establishment bancario consolidatosi dagli anni 90.
Al giro di boa – ancora incompiuto – di una legislatura fortemente connotata dalle crisi bancarie e conclusa da una contrastata commissione parlamentare d’inchiesta – la magistratura sembra dunque zelante nel puntaretutte le dita contro il sistema bancario nazonale: contro l’uso della finanza più rischiosa e più opaca; contro le vischiosità della governance delle ex Popolari e sui rapporti fra banche d politica mediati dalle Fondazioni. Tutte vicende controverse in sede di dimostrazione tecnica delle ipotesi accusatorie, mentre è forte l’impressione di iniziative “ad personam”: contro Profumo, oggi Ad di Finmeccanica su indicazione di Paolo Gentiloni tacitamente avallata da Matteo Renzi; e contro Bazoli, ritenuto tuttora personaggio molto influente fra finanza, media e politica. Per non parlare di Palenzona, ancora molto pesante fra Fondazioni, Cdp, grandi reti infrastrutturali.
In una democrazia matura la presunzione garantista verso gli indagati o i processati in attesa dei tre gradi di giudizio isi sposa con l’assunzione di terzietà della magistratura verso le vicende più prossime agli snodi critici del potere politico-finanziario. Certamente Profumo, Bazoli e Palenzona hanno rappresentato il “potere bancario” assai più di Pierluigi Boschi, vicepresidente di Banca Etruria; o di coloro che hanno determinato il crack Mps, che Profumo e Viola erano stato chiamati a evitare “in articulo mortis”. Ma se è aperta la caccia ai “veri responsabili” della crisi bancaria italiana, essi avrebbero dovuto essere indicati dalla commissione parlamentare d’inchiesta: i cui poteri inquirenti erano equiparati a quelli della magistratura, associati peraltro a finalità espresse di politica creditizia.
È peraltro comprensibile che nel vuoto istituzionale una magistratura – sempre irresponsabile sul piano delle scelte discrezionali, dei tempi e dei modi dell’attività investigativa – tenti di avanzare nuovamente aspirazioni e pretese. Ma in settembre saranno dieci anni dal crack Lehman, costato al mondo – secondo stime al ribasso – fra i 5mila e i 10mila miliardi di dollari. Non ci stancheremo di ripetere che Dick Fuld, Ceo di Lehman nel settembre 2008, da allora non è mai stato neppure indagato (dall’America politicamente corretta di Barack Obama).