In medicina la si definirebbe una “paralisi fibrillatoria”: cioè il cuore politico dell’Italia non batte regolarmente e non pompa il sangue nelle vene, ma vibra come un meccanismo a orologeria e fa temere di poter esplodere a ogni istante. È una situazione figlia legittima del voto democratico del 4 marzo, che ha evidenziato un Paese diviso in tre blocchi senza alcuna facilità di dialogo, e paralizza decisioni politiche spesso improcrastinabili, se non con danni gravi o gravissimi: come ad esempio quelle sulla cessione di Alitalia, la compagnia area commissariata che in teoria, in base alle decisioni del governo uscente, andrebbe venduta senza indugio.
Il ruolino di marcia definito a suo tempo, infatti prevedeva che i tre commissari – Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari – ricevessero entro quattro giorni da oggi, cioè entro il 10 aprile, le offerte impegnative dei concorrenti in gara per l’acquisto: cioè da un lato i tedeschi della Lufthansa, compagnia aerea quotata in Borsa e costituita in public company (primo socio il gestore di fondi americano Franklin Templeton) dopo essere stata fondata e resa forte dallo Stato, che la privatizzò a fine anni Novanta; e la maxi-alleanza tra le compagnie Easyjet, Air France-Klm, Delta Airlines e il fondo di investimento Cerberus, che erano già scese in lizza individualmente e si sono accordate per procedere di conserva.
Ebbene: non accadrà. Non riceveranno alcuna offerta. Perché le due entità si sono già premurate di far sapere che, mancando oggi in Italia un governo nella pienezza dei poteri – quello esistente è scaduto, quello che dovrebbe essere votato dal nuovo Parlamento è ancora in mente dei – non avanzeranno alcun impegno formale. Non c’è, effettivamente, l’interlocutore istituzionale che possa, a fronte dei loro impegni, prendere i propri. Quindi, in concreto, poiché entro il 10 la procedura di vendita fissata per legge prevede la chiusura della raccolta delle offerte, si va verso un decreto di proroga che riapra i termini della gara.
Ma non basterà. Perché il vincitore delle elezioni di marzo, Luigi Di Maio, su Alitalia ha una posizione politica molto prudente: “Su Alitalia prima di tutto voglio leggere il bilancio. Voglio tagliare prima quello che non serve, il 30% di spese inutili, e poi se serve interloquiamo con Lufthansa”, perché con questa operazione “oggi stiamo perdendo posti di lavoro”, ha detto alla radio: “Prima voglio metterla a posto e poi interloquire con gli altri soggetti. Invece l’impressione che ho di questo governo è che se la vuole togliere dalle mani, perché altrimenti si potrebbe scoprire che la passata governance ha fatto qualche guaio in Alitalia”. E Matteo Salvini, l’altro leader vincente di marzo: “Alitalia non va svenduta alle multinazionali o alle società straniere, ma va valorizzata come compagnia di bandiera”. Con queste premesse, altro che decreto di proroga: si profila un nulla di fatto per l’intera procedura di vendita.
Ma sarà un bene o un male? Secondo il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, un male: anche recentemente ha ricordato infatti che su quella compagnia lo Stato ha già speso 8 miliardi di euro di ripianamento perdite e fallimentari tentativi di rilancio. Secondo i fatti degli ultimi mesi, invece – da quando è in carica il triunvirato dei commissari – forse un bene: oggi Alitalia è ancora in perdita, ma non brucia più cassa e il prestito ponte dei 900 milioni di euro fornitole dallo Stato è ancora lì, nei forzieri della società, a fare il suo lavoro di “capitale circolante”. Come dire che se stavolta una nuova proprietà intervenisse ricapitalizzando l’azienda con nuovi mezzi propri, non starebbe più buttandoli dalla finestra, ma probabilmente se li ritroverebbe tutti a fine anno, e si ricandiderebbe addirittura a intascare un piccolo utile.
Dunque, la procedura di gara pensata come una specie di saldo di fine stagione, di liquidazione commissariale – appunto – andrà quanto meno riscritta nel suo spirito: non una liquidazione, ma una privatizzazione, con qualche pretesa regolatoria in più, a scanso di disillusioni a posteriori. Ma sarà mai in grado, il nuovo, futuro governo – se nascerà! – di mettersi d’accordo su un tema così stantio e complesso? A giudicare dalle enunciazioni della vigilia di Di Maio e Salvini, in questo non così distanti tra loro, sì. Entrambi hanno opinioni invece incompatibili con la linea del Pd, il partito perdente di marzo, che sosteneva il governo oggi uscente, e che è per la linea del vendere a tutti i costi.
Intanto l’azienda vive una fase di gestione dinamica. Apre nuove rotte intercontinentali redditizie, come quella imminente per Johannesburg, suggerite dal marketing e non imposte a sproposito dalle varie lobby professionali interne come accadeva prima. Conquista nuovi record, come quello – mondiale! – di puntualità, conseguito nello scorso gennaio. La gestione corrente è insomma molto migliore che in passato. Forse è un peccato affidarla a un compratore qualsiasi ma comunque pronto – questo è poco ma sicuro – a smembrarla per servirsene solo ai propri fini.
Alitalia potenzialmente è per l’Italia – proprio come Lufthansa è di fatto per la Germania, pur non essendo più pubblica e anzi avendo un primo socio americano – una straordinaria porta d’accesso, e calamita di attrazione, del mondo verso il nostro territorio. In più della compagnia tedesca, Alitalia ha il nome del suo Paese nel brand. In meno della Lufthansa, ha il fatto che… quelli sono tedeschi, e tali restano, chiunque sia il padrone: fedeli a una linea indeflettibilmente nazionalista.
Affidare Alitalia a mani private italiane è stato tentato senza successo, ma avrebbe potuto funzionare, a vantaggio dell’azienda e del Paese. Affidarla a a mani straniere non può che essere una rinuncia del Paese a un’opportunità. I disfattisti dicono: non c’è più da crederci, inutile sperare: e forse hanno ragione. Gli ottimisti guardano ai fatti degli ultimi mesi e fanno un ragionamento interessante: se una gestione commissariale, quindi di breve periodo, che non può far promesse di lungo termine a nessuno, sta riuscendo a gestire bene, cosa mai non farebbe una gestione forte, espressa da una nuova proprietà credibile. Si vedrà cosa dirà il nuovo governo, se mai ne avremo uno.