Provate a immaginare una situazione in cui la Banca d’Italia, oltre a controllare i due terzi dei Bot e dei Btp in circolazione, sia anche il maggior investitore della Borsa italiana, con una presenza complessiva nel capitale delle società quotate superiore all’ammontare delle azioni in mano agli investitori stranieri. Per giunta, il controllo delle leve dell’economia, manovrate dal governatore grazie a un mandato a termine dipendente dal premier in carica, viene rafforzato dalla gestione dei fondi pensione, ovviamente pilotato dall’alto, e amplificato dall’uso della banca centrale di strumenti come gli Etf sull’indice azionario.



È questa la situazione in cui si trova il Giappone, all’inizio del settimo anno dell’Abenomics, ovvero la lunga stagione del premier Shinzo Abe oggi in forte difficoltà per lo scandalo immobiliare che ha coinvolto la moglie. Al di là delle vicissitudini di politica interna, va rilevato che la strategia adottata per sgominare la profonda depressione dell’economia giapponese, oltre all’indubitabile merito di aver risvegliato almeno una parte degli animal spirits di un Paese che invecchia, ha avuto diversi effetti collaterali. Tra cui, non ultimo, l’enorme peso della banca centrale sull’economia privata grazie all’accumulo dal novembre 2012 a oggi, di titoli azionari per 18 mila miliardi di yen (circa 150 miliardi di dollari) contro i 12 mila miliardi (ovvero 111 miliardi di dollari) in mano agli operatori internazionali. 



Una situazione anomala, ma che riflette un generale rafforzamento della sfera pubblica e del dirigismo che riguarda più o meno la governance economica del dopo crisi, caratterizzata dal risorgere di aree mercantiliste che tendono a sostituirsi al libero scambio. L’offensiva sui dazi di Donald Trump è la punta dell’iceberg di questo confronto particolarmente aspro sul fronte della tecnologia. Da una parte la Cina intende diventare leader globale nell’intelligenza artificiale entro il 2025 e sta aprendo alla periferia di Pechino un grande polo interamente dedicato al settore. Sono evidenti, qui, le implicazioni militari e quelle legate alla sicurezza interna. Dall’altra gli Stati Uniti, alle prese con i retroscena che emergono dalla vicenda di Cambridge Analityca. Ma il clamore della vicenda non spegne le proteste di molti dipendenti del motore di ricerca che ha per motto don’t be Evil per la partecipazione della società al progetto Maven, ovvero un programma che intende mettere a punto assieme alle forze armate un algoritmo da sviluppare con l’ausilio dell’intelligenza artificiale. 



Grazie a Maven sarà possibile individuare e distruggere obiettivi quasi invisibili con “una precisione impressionante”. Accanto alla tecnologia soft rivolta al largo consumo si fa così largo la tecnologia “dura”, quella che si svilupperà nei laboratori del Pentagono piuttosto che nei garages della California. Altri Paesi si iscrivono alla gara. Emmanuel Macron si è affidato al matematico Cédric Villani, vincitore della medaglia Phields per realizzare un piano francese piuttosto articolato e ci investirà un miliardo e mezzo, una cifra dignitosa che però scompare di fronte agli stanziamenti cinesi. E così via. 

Il gioco, insomma, si sta facendo sempre più duro: largo agli Stati e alle loro gerarchie. È finita la stagione dell’anarchia fiscale, di cui approfittano ancora (ma siamo agli spiccioli) i grandi della Rete, destinati a esser travolti dai malumori delle vittime, dai piccoli commercianti spiazzati via da Amazon ai bancari in esubero per la concorrenza del Fintech. 

E l’Italia? Tra le giustificazioni più che legittime dietro l’ingresso “di garanzia” della Cdp in Telecom Italia rispunta la nostalgia della stagione dei campioni dell’Iri, un’esperienza finita più per l’ingiunzione di Bruxelles che non per una scelta condivisa della società italiana. Un trauma con cui, comunque vada a finire la partita con Vivendi, prima o poi dovremo fare i conti.