Una volta tanto sono tutti d’accordo. In Italia, del resto, la cosa più facile è mettersi d’accordo sul rinvio. Quando poi l’oggetto è la politica fiscale, tutti diventano come Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore; per non parlare di Paolo Gentiloni che è già prudente di suo. Sembra, dunque, che ci sia un consenso trasversale sull’ipotesi di posporre la presentazione del Documento di economia e finanza; anche l’Unione europea si sarebbe convinta di aspettare.



Può apparire una scelta corretta sul piano istituzionale e rispettosa su quello politico. Il governo uscente farebbe una mossa sbagliata se volesse ipotecare in qualche modo la politica del prossimo esecutivo. Spostare le scadenze di un paio di settimane può dar tempo quanto meno per capire che tipo di maggioranza si formerà e, di conseguenza, quale esecutivo dovremo aspettarci. Tutta questa prudenza, però, è eccessiva e controproducente; il rinvio di due-tre settimane rischia di rivelarsi un errore sia sul piano formale sia su quello sostanziale.



Intanto, è molto improbabile che di qui al primo maggio ci sia un governo in carica. Inoltre, il Documento di economia e finanza non è la Legge di bilancio, deve fissare la cornice all’interno della quale si può muovere il prossimo ministro dell’economia. Quindi nessuna invasione di campo, ma l’indicazione di una traiettoria, di un percorso, la scelta delle priorità e la individuazione chiara delle compatibilità.

Allora, perché non presentare subito il Def, magari aprendo un confronto con il nuovo parlamento e con i partiti usciti vincitori dalle elezioni? Gli elettori potrebbero cominciare a giudicare se i politici che hanno scelto sono in grado di rispettare le promesse lanciate a man bassa durante la campagna elettorale. I partiti sarebbero costretti ad abbandonare la propaganda demagogica della quale hanno riempito gli schermi televisivi, le colonne dei giorni e le urne, cominciando a dire qualcosa di concreto. Ma lo stesso presidente della Repubblica, che finora ha registrato solo veti reciproci, potrebbe essere aiutato nella sua opera maieutica.



Il punto a cui siamo arrivati dopo il primo giro di consultazioni è che nessuno si fida degli altri, soprattutto nessuno ha scoperto davvero le carte. Si dice che esistono convergenze programmatiche, di volta in volta all’interno del centro-destra o tra Lega e Movimento 5 Stelle, tra grillini e Pd, oppure tra sinistra moderata e Forza Italia, ma queste vicinanze vere o presunte, si basano su slogan, su parole d’ordine su titoli che aprono pagine bianche. Il Def, pur scritto dal governo uscente, può aiutare a capire chi sta con chi e su che cosa.

Le prossime scelte economiche sono particolarmente delicate anche per l’eredità che la legislatura precedente ha passato a quella appena cominciata. Si pensi solo alla cosa più concreta: l’aumento dell’Iva slittato di anno in anno fino al 2019. Per evitarlo bisogna trovare qualcosa come 15 miliardi di euro con la legge che dovrà essere approvata in autunno. È possibile? E come? Matteo Salvini ha detto che rispetterà il limite del 3% nel rapporto tra deficit pubblico e prodotto lordo, solo se sarà possibile. Altrimenti meglio sfondare. Ciò significa innescare una procedura d’infrazione inasprendo i rapporti tra Roma e Bruxelles. Si arriverebbe, così, alle elezioni europee con il massimo di tensione tra Italia e Ue, gettando benzina sul fuoco euroscettico.

Può darsi che alla Lega vada bene così, perché pensa di ricavarne un ulteriore beneficio elettorale. Ma che ne dice Antonio Tajani, al quale Silvio Berlusconi ha affidato il compito di garantire il rispetto delle regole e che su questo si gioca palazzo Chigi? Quanto ai grillini, c’è un’evidente contraddizione tra i giuramenti europeisti dell’ultim’ora e quello che Luigi Di Maio è andato dicendo nel recente passato, per non dimenticare il tamburino di latta suonato da Alessandro Di Battista, Roberto Fico e Beppe Grillo.

Ma non si tratta solo di rispettare le strettoie del patto di stabilità. Compilare un Def sia pur a legislazione invariata sarà ancor più difficile se passa troppo tempo. Finora il governo uscente ha potuto contare sul traino della ripresa, anche se più debole della media europea. Le buone notizie non hanno convinto gli elettori, tuttavia non erano affatto fake news; adesso invece rischiano di interrompersi. I dati dell’Istat sul mercato del lavoro confermano che l’effetto della crescita sull’occupazione è deludente. Non solo. Dall’Europa arrivano segnali preoccupanti. La Germania che finora ha fatto da locomotiva per l’Unione europea e in particolare per l’Italia visto il livello di integrazione tra le due economie, sta rallentando. Può darsi che sia una pausa, tuttavia l’industria non tira più come nei mesi scorsi. A ciò s’aggiunge l’incognita più allarmante: la fine del Quantitative easing e l’aumento dei tassi d’interesse. Ogni punto in più ci costa almeno due miliardi di euro l’anno secondo alcune stime approssimative.

Carlo Cottarelli al quale Di Maio ha pensato come eventuale nuovo ministro dell’Economia, adesso dice che “se vogliamo diventare resistenti a possibili incidenti di percorso che sicuramente incontreremo, quale per esempio una recessione proveniente dall’estero, bisogna raddoppiare l’avanzo primario, dal 2 al 4 per cento”. Ciò significa recuperare circa 32 miliardi di euro. Come? Bloccando la spesa pubblica per almeno tre anni. Tutti i partiti, invece, hanno chiesto di aumentare la spesa e in particolare le erogazioni assistenziali.

Se le cose stanno così davvero è meglio mettere subito sul comodino del malato l’amara medicina. Gentiloni e Padoan ci ripensino, scrivano un Documento di economia e finanza realistico, tenendo conto di come la congiuntura potrà girare di qui al prossimo anno e chiedano al parlamento di esprimersi: cambiando se possibile le variabili di fondo oppure accettare di muoversi dentro le linee guida tracciate. L’Ue, Sergio Mattarella e soprattutto gli elettori non potranno che dire grazie a una onesta operazione verità.