Questa settimana scrivo da Acireale sulle falde dell’Etna a pochi chilometri da Catania e a strapiombo quasi sul mar Ionio. E da lì che è venuta la famiglia di mio padre e alla Accademia degli Zelanti e dei Dafnici (creata nel lontano 1671) si presenta uno studio di un giovane accademico locale costruito sull’epistolario dal 1904 (anno in cui i miei nonni si sposarono) al 1938 tra mio nonno, mia nonna e mio padre – tutti e tre impegnati in politica, ma su sponde distinte e distanti.



Non tornavo ad Acireale dal 2010. La cittadina (60.000 abitanti) mette tristezza. Esempio del barocco e un tempo florida, molti negozi sono chiusi, anche sui due corsi principali, e i grandi caffè e gli eleganti sportelli bancari sulla piazza centrale hanno le serrande abbassate per mancanza di inquilini. Un tempo era florida grazie principalmente all’alta produttività del suolo vulcanico. Per questo motivo, tra le tanti “Aci” dove ci sarebbe stato il mitico fiume sorto dal sangue del pastorello innamorato della ninfa Galatea e trucidato dal ciclope Polifemo, questa è chiamata “reale”; densa di palazzi baronali (che richiederebbero un bel restauro), con un magnifico giardino pubblico liberty da cui nelle buone giornate si vede non solo Taormina ma anche la Calabria, con acque termali sulfuree (anche esse in uno stabilimento liberty), un tempo soggiorno di notabili “del Continente”. Richard Wagner se ne innamorò e vi visse alcune settimane mentre componeva Parsifal.



La prosperità di questo lembo della Sicilia non è solo un ricordo di gioventù: lo confermano i dati di un lavoro di Jaon Rosés della London School of Economics e di Nikolaus Wolf della Università von Humbolt di Berlino (Regional Economic Development in Europe 1900-2010: a Description of Patterns CEPR Discussion Paper No. DP12749). La zona, da produttrice di vini e agrumi pregiati, è diventata un mercato; sconfitta dalla concorrenza del sud del Mediterraneo e dalla inadeguata rete italiana di trasporti, sta tentando la carta turistica. Non so con quante speranze.

È un esempio, tra i tanti, del dissesto del Mezzogiorno: secondo il recentissimo Rapporto sulle Economie Territoriali della Confcommercio, in Sicilia il tasso totale di disoccupazione supera il 21%, rispetto a una media nazionale dell’11,2% e quello di disoccupazione giovanile il 57,2% (era il 51% nel 2000) rispetto a una media nazionale del 29,9%. Gli indici di qualità di capitale umano non sono così divergenti: 11,6 rispetto a una media nazionale del 12,5, ma un terzo di laureati nelle discipline tecnico-scientifica emigra o verso il centro-nord o verso l’estero.



Ci sono vincoli non economici (diffusione della mafia, un tempo sconosciuta nel catanese, le pessime amministrazioni locali, i particolarismi della politica locale, la disattenzione di quella nazionale). Finiti i primi positivi decenni della Cassa per il Mezzogiorno (della cui capacità tecnica la Banca Mondiale aveva grande stima e a cui fece quattro differenti prestiti sino alla metà degli anni Sessanta) si è aperta una stagione di interventi a pioggia, di progetti mal concepiti, di clientelismi. Su tutto grava l’ipoteca di quanto analizzato circa trenta anni fa Giorgio Bodo e Paolo Sestito in Le vie dello Sviluppo (il Mulino 1991): l’errore di avere tentato di passare da un’economia agricola a una di servizi senza passare per uno stadio di industrializzazione diffusa.

Una maggiore presenza di economisti dello sviluppo nella governance della Sicilia avrebbe potuto contribuire positivamente, come sottolinea Graig Brown di Northeastern University nel recente studio Economic Leadership and Growth. Avrebbero forse limitato i finanziamenti a pioggia e le cattedrali nel deserto e promosso “distretti industriali” innovativi. È la strada indicata nel settimo rapporto su Le Imprese Industriali nel Mezzogiorno 2008-2016 della Fondazione Ugo La Malfa (Fulm) che verrà presentato nei prossimi giorni.

Lo studio realizzato in collaborazione con l’area studi di Mediobanca suggerisce che le medie imprese del Sud presentano la stessa produttività di quelle del quarto capitalismo: sono efficienti e danno buoni risultati. Con politiche mirate, comprensive di zone economiche speciali, si può riaccendere il motore.