Da 50 giorni non si sente parlare che del “Governo di cambiamento”. Come la stragrande maggioranza degli italiani sono in attesa della fine di queste manfrine che anche la “Terza Repubblica” ci sta regalando per iniziare ad apprezzare questo benedetto cambiamento. Ma di che cambiamento stanno parlando i vari politici? A me non risulta chiaro. Cambiare? Data la situazione attuale del nostro Paese, mi sembra un qualcosa di ineludibile, ma cambiare cosa? Come? Ho sentito varie proposte, alcune palesemente da campagna elettorale, con possibili importanti riflessi sulle nostre disastrate casse dello Stato (e con altri risvolti ancora da valutare).
Il disastro economico finanziario trova le sue fondamenta, soprattutto, in una politica completamente errata. È inutile indignarsi. I nostri politici sono di un’impreparazione stellare. Le cause sono complesse, ma certamente l’adozione di un maggioritario farlocco, dove per essere eletto devi semplicemente farti mettere in lista, dispensa i nostri politici dal dotarsi di una preparazione culturale adeguata. Quindi siamo di fronte a un problema evidente: il deficit di politica e di democrazia, determinato dall’aver compresso il ruolo dei partiti con l’adozione di leggi elettorali poco brillanti.
Ci hanno detto per anni che i partiti erano il “male“, erano la “corruzione“, erano il “voto di scambio“, andavano combattuti, irreggimentati. Non possiamo negare che il problema, purtroppo, esiste, ma la soluzione è stata peggiore del male: ha generato una classe di yes men più corrotta della precedente. Impreparata, in particolar modo, a gestire il rapporto con le istituzioni europee. Gli attuali politici sono soggiogati dal pensiero magico dell’Europa. E mi sembra che uno dei pochi meriti di cui possiamo vantarci è quello di aver dato i natali all’attuale presidente della Bce. Un po’ poco. Mi affido, allora, a diagnosi già ampiamente dimostrate.
La lentezza della nostra giustizia. Secondo un rapporto della Commissione Ue, la nostra giustizia semplicemente non funziona. Lentissima e non solo. Secondo alcuni l’inefficienza della nostra giustizia ci costa almeno l’1% del Pil. Senza dimenticare i pericolosi risvolti sociali, è giusto ricordare che uno dei fattori che tengono lontani gli investitori dall’Italia è proprio il nostro sistema giudiziario.
La burocrazia. In base a un sondaggio, la maggior parte degli imprenditori che hanno trasferito le loro attività nella vicina Svizzera ha sostenuto che la prima ragione di questa delocalizzazione è proprio la burocrazia. Non ho a disposizione un calcolo preciso di quanto la delocalizzazione abbia inciso sul nostro Pil, ma sappiamo che sono migliaia le aziende (piccole, medie e grandi) che hanno salutato il nostro Paese, accolte a braccia aperte ovunque nel mondo. Se alle difficoltà di una fiscalità non certo amica per gli imprenditori, alla lentezza della giustizia e all’arretratezza di un certo modo di fare sindacalismo, aggiungiamo il distacco del mondo produttivo dalla scuola (in particolar modo quella professionale), non possiamo certamente biasimare chi ha fatto questa scelta.
La cultura trascurata. Oggi la cultura è anche un business importante. Da sempre gli investimenti, se così possiamo chiamarli facendo uno sforzo semantico, che il nostro Paese ha realizzato nella cultura sono, a dir tanto, omeopatici.
Gli investimenti mancati. C’è una formula semplice che si studia il primo giorno di qualsiasi corso base di economia: il moltiplicatore degli investimenti (con tutte le variabili collegate). Anche in questo caso siamo il Paese europeo che meno investe in tantissimi settori (basti pensare, tra gli altri, alla “green economy”).
Questa breve diagnosi suggerisce una prima considerazione: il nostro Paese è privo di una qualsiasi strategia economica, di breve ma anche di medio e lungo termine. Abbiamo accettato, senza quasi colpo ferire, le direttive di austerity imposteci “dall’alto”, con i risultati che abbiamo di fronte, senza aver portato avanti quelle riforme strutturali di cui sopra e quei progetti necessari per la crescita. Fermo restando che alcune delle riforme accennate sono a costo zero, anzi con notevoli risparmi per le casse dello Stato, la medicina più importante va riservata al nostro problema maggiore: l’enorme debito pubblico.
Le soluzioni sono a portata di mano, basta riconsiderare le regole che disciplinano la macroeconomia e riportarle nella microeconomia. La macro è un ramo dell’economia politica che studia i comportamenti del sistema economico aggregato, prendendo in considerazione una serie di variabili: domanda e offerta; Pil; consumi, investimenti, risparmi, esportazioni e importazioni, bilancia dei pagamenti; moneta; inflazione, disoccupazione, aspettative e, infine, politica monetaria della Banca centrale europea e politica fiscale del Governo. Con una nota dolente sul ruolo della politica economica che è quello, come ricordato sopra, di intervenire e correggere, qualora la famosa “mano invisibile” del mercato non fosse in grado di farlo.
Per risolvere il problema si potrebbe ricorrere a manovre e strumenti di finanza strutturata come ABS (Asset Backed Securities); AIF (Alternative Investment Funds, che, a differenza delle Sicav, che investono in tradizionali strumenti finanziari, sono più flessibili); Project finance; ETI’S (Exchange Traded Investiment, uno strumento che permette di monetizzare l’asset conferito in una SPV per utilizzarlo come collaterale per l’emissione di un’obbligazione), bond e altri strumenti. Con quali vantaggi? Valorizzazione immediata di un progetto, abbattendo così la burocrazia che domina nel nostro Paese; trasformazione della classe di rischio; acquisizione di finanza a medio-lungo termine fuori dai parametri di Basilea 3; conseguimento e miglioramento dei rating aziendali; possibilità di auto-cartolarizzazione e internalizzazione. Si possono così creare una “cabina di regia” e un “incubatore finanziario autonomo” in grado di sostenere un sistema a fecondità ripetuta. In pratica, un nuovo modello strategico-operativo tra impresa e finanza, assegnando a quest’ultima la funzione di motore della crescita economica.
Dunque, cambiare si può. Siamo il Paese più bello del mondo, con il 50% del patrimonio artistico esistente, con genialità che ci pongono tra i maggiori paesi brevettatori, con qualità di vita elevata e, soprattutto, con un posto nella storia che non può essere quello di “sorvegliati speciali” dell’Ue. Da qui traggo la speranza per un cambiamento che possa portare il nostro Paese a essere di nuovo uno dei motori dell’economia mondiale.
(Rossella Rettura)