“Un Paese già con il fiatone prima della crisi e che anziché mandare segnali di rafforzamento vero ha dato vita a una stagione, direi poco avveduta, di liberalizzazione e precarizzazione del lavoro senza preoccuparsi di verificarne l’impatto in termini economici e sociali. Così oggi siamo un Paese anemico, che manca di energie vitali”. Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, commenta così il Rapporto Istat 2018 sulla situazione socio-economica del Paese, che in effetti è una dolente corona di dati negativi: siamo il secondo Paese più vecchio al mondo (168,7 anziani ogni 100 giovani), in declino demografico per il terzo anno consecutivo, un Paese più fragile (il 17,2% degli italiani si sente privo o quasi di sostegno sociale), dove crescono le diseguaglianze, la povertà assoluta e gli indici di sofferenza sociale, con un ascensore sociale sostanzialmente bloccato e un Sud sempre più arretrato e devitalizzato. “Dobbiamo cambiare rotta – aggiunge Campiglio – e dobbiamo farlo in fretta”.



Il Rapporto Istat 2018 ci consegna l’immagine di un Paese vecchio, sempre più disabitato, bloccato e attraversato da diseguaglianze. Una fotografia che mette più tristezza o allarme?

Siamo un Paese che vede arrivare al pettine nodi ed errori accumulati negli ultimi vent’anni. E oggi siamo un Paese anemico, che manca di energie e di forze vitali, perché i giovani se ne vanno all’estero o sono sottostimati e sottoutilizzati. Non stiamo certo vivendo uno dei momenti migliori, perché la crisi ha avuto un impatto pesante, ben al di là delle normali conseguenze di una fase ciclica difficile.



C’è un dato che l’ha colpita in particolare?

Mi ha molto colpito la divaricazione tra il reddito medio disponibile, che è leggermente aumentato, e il fatto che siano cresciute sia le diseguaglianze che la povertà assoluta.

Come se lo spiega?

È la conferma che una crescita anemica e lenta non ha potuto portare benefici ben distribuiti in proporzione tra le fasce sociali. Chi stava male oggi sta peggio, ed è una condizione che si verifica da tre anni. Gli indici di sofferenza economica e sociale purtroppo sono in aumento.

A quali indici si riferisce?

La speranza di vita in buona salute alla nascita è in diminuzione per le donne e stabile per gli uomini; la natalità cala da ben 9 anni; i tassi di fecondità totali nel 2017 sono rimasti stabili a 1,34 figli per donna, ma al Sud sono più bassi che al Nord; l’indice di vecchiaia è aumentato; la forza di attrazione dei migranti sta diminuendo perché l’Italia ha perso attrattiva.



A proposito dell’aumento di diseguaglianze e povertà assoluta, a giugno verrà allargata la platea dei beneficiari del reddito di inclusione e, qualora dovesse nascere il nuovo governo M5s-Lega, potrebbe arrivare anche il reddito di cittadinanza. Basteranno?

Il reddito di cittadinanza è una forma più robusta di sostegno al reddito dei disoccupati. Secondo me, invece, andrebbe posta maggiore enfasi sul reddito legale minimo, come avviene in gran parte dell’Europa. Questo strumento potrebbe aiutare l’Italia, in una stagione di gig economy diffusa e di ancora forte presenza del caporalato in alcuni settori, a non diventare un Paese asiatico.

Il Sud resta indietro in molti indicatori. Ricette per farlo ripartire non sono mancate, ma i risultati evidentemente non sono stati pari agli sforzi e alle attese. Come si può ridare speranza e slancio al Mezzogiorno?

Ci vuole più libertà. Libertà che significa riguadagnare interi territori al controllo dello Stato, ristabilire spazi adeguati ai corpi intermedi, oggi spazzati via dalla criminalità, visto che in alcuni paesi nemmeno si riescono a eleggere i consigli comunali perché non si presentano candidati. Libertà significa anche restituire libertà di fare impresa e di vivere. Abbiamo ormai un disperato bisogno di investimenti pubblici, che sono stati tagliati oltre ogni ragionevolezza: in termini reali il calo dal 2010 a oggi è stato addirittura del 40%.

La libertà, dunque, come primo presupposto. Serve altro?

Bisogna rimettere le persone fuori da condizioni di disperazione tali da poter essere facilmente ricattabili o soggiogabili dalla criminalità. Questo vale soprattutto per i giovani, che al Sud sono sempre più senza speranza.

Anche nella sanità, ricorda il Rapporto Istat, emergono note dolenti. Posti letto in calo, mobilità ospedaliera elevata, specie al Sud. E’ un segnale preoccupante in chiave welfare?

Questo è un dato estremamente preoccupante. Lo ripeto: la diminuzione della speranza di vita in buona salute è un segnale aggregato marginale da non sottovalutare e a cui porre attenzione e rimedio. I continui tagli alla sanità e al tenore di vita hanno prodotto questo stato di cose. E alle carenze di cure e assistenza devono sempre di più far fronte le donne, stressando oltre misura le loro vite e frenando la loro potenziale capacità di lavoro.

Sul versante economico crescono produzione, export e consumi, ma i salari non aumentano. Resta cioè il nodo della produttività: come lo si può sciogliere?

La produttività è calcolata come valore aggiunto per ora lavorata. Il valore aggiunto è dato da salari più profitti. Dopo anni di politiche salariali al ribasso, questo è il risultato e se l’Italia nella catena globale del valore resta ancora nella fascia più bassa è normale che la situazione della produttività non sia all’altezza.

L’occupazione è in ripresa, ma il numero di Neet, giovani che non studiano né lavorano, è tra i più alti in Europa. Possiamo ancora permetterci di non scommettere sui giovani?

Oscar Wilde diceva che “l’unico modo per resistere alle tentazioni, è cedervi”. Il tema dominante in questi ultimi anni, la grande tentazione delle imprese, è stato quello dei grandi sussidi. Ma l’eccessiva liberalizzazione e precarizzazione del lavoro, con la crisi, ha colpito pesantemente le fasce contrattualmente più deboli, cioè i giovani. Troppi, in cerca di soluzioni valide, si muovono dal Sud verso il Nord e poi, guardandosi in giro, decidono magari di emigrare in altri paesi. L’Italia da tempo non offre opportunità concrete ai giovani. È un’anemia che sta facendo sfiorire il Paese: senza il fertilizzante degli investimenti, innaffiati da qualche garanzia in più sul futuro, rischiamo di rimanere drammaticamente bloccati.

Come l’ascensore sociale, che in Italia non funziona più. Non le sembra un altro handicap troppo pesante da sopportare?

In un quadro generale già deteriorato, dove il merito viene bistrattato e i giovani che vogliono rimboccarsi le maniche non sono riconosciuti, è facile passare da una frantumazione del lavoro che diventa anche frantumazione di vita.

Siamo un Paese senza speranza o si può invertire la direzione di marcia?

L’Italia, che aveva già il fiatone prima della crisi, anziché lanciare segnali di rafforzamento vero, ha vissuto una stagione, direi poco avveduta, di liberalizzazione e precarizzazione del lavoro senza preoccuparsi di verificarne l’impatto in termini economici e sociali. Dobbiamo cambiare rotta, e in fretta, ponderando con estrema cautela la direzione da prendere. L’Italia, come dimensioni ed essendo uno dei Paesi fondatori dell’Unione europea, non è la Grecia, non può essere presa – diciamo così – “sottogamba”: se l’Italia entra in un’ulteriore e più grave spirale di crisi sarà l’Europa stessa che rischia di andare in frantumi.

(Marco Biscella)