È deprimente constatare come in quaranta pagine di “contratto di governo” naufraghino miseramente per palese insipienza operativa tutte le serie di istanze democratiche sacrosante – quelle che hanno poi portato i Cinquestelle a vincere e la Lega a crescere – che però con questi metodi non potranno mai e poi mai diventare realtà. Una per tutte, quella che Di Maio e Salvini celebreranno oggi andando a fare una sorta di pellegrinaggio politico nell’abitazione monzese dell’imprenditore Sergio Bramini, fallito a causa del ritardato pagamento di un credito di 4 milioni di euro da lui vantato nei confronti della Pubblica amministrazione e proprio oggi sottoposto a sfratto esecutivo dal Tribunale come conseguenza praticamente automatica del fallimento, delle richieste dei creditori (bancari e non) e delle procedure, scellerate e dissipatrici, per il realizzo forzoso dei beni.
Ecco: da una parte la vicenda di Bramini che conferma in modo plastico e nauseante come lo Stato sia una macchina guasta, capace di generare ingiustizie e inefficienze, senza più trovare lungo i suoi meccanismi alcun anticorpo contro la cattiva amministrazione, né trovandoli nelle leggi, né tantomeno nel modo in cui la magistratura le applica. Dall’altra, il puro show propagandistico, senza sostanza, uno struscio dimostrativo fine a se stesso perché nessuna – nessuna! – delle storture che possono oggi condurre un cittadino onesto nella condizione di Bramini, ritrovarsi sul lastrico pur avendo ragione, viene minimamente messa in discussione dal contratto di governo.
In poche parole: molti obiettivi del contratto sono condivisibili, i metodi e le pretese e le priorità con le quali si asserisce di poterli raggiungere sono, come ha detto, Macron, “paradossali”, ma in realtà soprattutto velleitari e incompetenti. Volendo, si potrebbe in sintesi definirli “cialtronate”. E fa specie non tanto per Di Maio, personalmente inadeguato a qualunque complessità effettiva, ma per Salvini: che ha attorno a sé gente come Giorgetti, Maroni o Zaia, che come si governa lo sanno, e bene.
Un calcolo sommario – che approfondito potrebbe quindi ancora aggravarsi – dei costi che sarebbe necessario sostenere per attuare le scelte indicate nelle quaranta pagine del documento conduce a 125,7 miliardi di euro totali, secondo la stima autorevole dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli e del suo Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, un personaggio del tutto estraneo al teatrino della politica tradizionale (e del renzismo sconfitto, che anzi lo mise fuori dal Palazzo). Costi per 127 miliardi e coperture per 500 milioni. Una presa in giro. Con parole al vento, come quelle secondo cui tutto ciò andrebbe finanziato in deficit, o secondo cui il debito pubblico italiano acquistato dal “Quantitative esasing” della Banca centrale europea potrebbe e dovrebbe essere scomputato dai parametri economici nazionali, quelli inviolabili, fissati dal Trattato di Maastricht. Tutte chiacchiere ridicole.
Ma c’è di più, e di peggio. Un’offensiva del genere, comunque del tutto irrealizzabile, ha avuto un solo precedente nella storia recente d’Europa: quella del governo Tsipras in Grecia, nella fase in cui ministro dell’economia fu Yanis Varoufakis, che fece temere la Grexit quando ottenne il “no” al referendum popolare contro le condizioni di rientro nei ranghi imposte dall’Unione europea. Ma i successivi negoziati si risolsero in una catastrofe per l’economia greca, il governo si sfasciò, Varoufakis ne uscì e da allora Tsipras è diventato il delegato-fantoccio della Troika economica internazionale e il Paese si è ridotto a una colonia tedesca. Eppure fino a quel momento la compattezza politica attorno al governo greco era stata assoluta. Oggi qui in Italia parlare di compattezza dietro il governo giallo-verde fa ridere, per non piangere.
Ma torniamo un attimo alle macro-voci del contratto. Cinquanta miliardi per la flat tax, 12,5 per la sterilizzazione dell’Iva, eliminazione delle accise sulla benzina per circa 6 miliardi. Riforma previdenziale dal costa di 8,1 miliardi e reddito di cittadinanza resta in sella con 17 miliardi. Senza un euro a coprire tutto ciò. Cifre al vento. L’unica che conta è quella dello spread tra il Btp e il Bund tedesco che ieri ha toccato quota 160.