Non suscita certo stupore la reazione negativa dei mercati alle innumerevoli bozze di programma di governo, compreso l’elaborato finale che in 57 pagine suddivise in 30 capitoli riassume una summa che secondo i conteggi di Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review, comporta maggiori uscite da 108,7 a 125,7 miliardi a fronte di coperture per soli 550 milioni. Senza entrare nel merito delle singole proposte, spesso irrealizzabili. Ancor meno stupiscono gli argomenti di Luigi Di Maio, pensieri che per un po’ non potremo ignorare: “Quando leggo stamattina – spiega il lìder – che qualcuno fa il conto della serva sul nostro programma e si chiede dove sono le entrate, rispondo che ci sono i margini in Europa che dobbiamo andarci a riprendere”.
Non è certo il caso di perder tempo sul merito di certe tirate retoriche. Semmai, c’è da chiedersi perché una parte consistente del Paese le prenda per buone. Ma fenomeni non dissimili stanno segnando la stagione del populismo un po’ dappertutto, perciò bando allo stupore: gli italiani, fortemente impoveriti e privati di fiducia e prospettive negli ultimi vent’anni, hanno senz’altro più ragione di altri ad affidarsi ad un voto di protesta.
Ma adesso? Il governo giallo-verde, se riceverà l’Ok del Quirinale, comincerà una navigazione piena di contrasti, ma anche, almeno all’inizio, entusiasta. E che senz’altro ci riserverà molte sorprese, difficilmente buone. I mercati, che non sono quei poteri forti che fa piacere immaginare, bensì uomini e donne alla ricerca di occasioni di guadagno il più delle volte legittimi, sono pronti a sfruttare gli scompensi che inevitabilmente ci saranno. Il volo dello spread, ad esempio, potrebbe rappresentare una buona occasione ad alto rischio come i bond greci nel 2015 o i rendimenti stellari (oggi impediti dalla Bce) del 2012. In Piazza Affari ci sarà modo per lucrare sull’eventuale incremento di consumi drogati dal taglio delle tasse o per speculare sull’eventuale uscita di alcuni gruppi di controllo.
“Fino a oggi i populismi di destra – ha notato Alessandro Fugnoli – hanno fatto bene all’azionario e male all’obbligazionario e al cambio”. Probabile che la regola funzioni anche stavolta. I mercati, in qualche modo, sanno individuare soluzioni razionali e praticabili. Senz’altro al ribasso perché la frenata dell’economia e il calo della liquidità ci stanno a segnalare che la stagione delle vacche grasse sta volgendo al termine, con buona pace di chi è capace solo di gridare all’untore (e lo sa fare molto bene).
Certo, è suonata l’ora dell’autocritica per una classe dirigente che ha puntato sull’euro, moneta realizzata male e gestita spesso peggio (nonostante Mario Draghi), senza capire la fragilità della situazione. Forse ha ragione il filosofo euroscettico François Heisbourg quando sostiene che moneta unica ed Europa sono come due fratelli siamesi. A un certo punto o li separi (e ne salvi uno) oppure sono destinare a perire entrambi. Ma l’unica cosa sicura è che il diavolo non è stato nell’euro, ma in quello che gli ha girato intorno, compresa Angela Merkel. Anche un’eventuale uscita dall’euro non sarebbe un male o un bene in sé, ma potrebbe diventarlo a seconda delle condizioni di preparazione, di attuazione e di gestione. Visto il programma ventilato dal governo in gestazione e, più ancora, la presunzione ingenua dei vincitori, non c’è da stare allegri.