Molti commenti al nuovo “caso Mps” sono già stati fatti: dopo le dichiarazioni dell’economista della Lega Claudio Borghi Aquilini (“A Siena vogliamo cambiare la governance”), il crollo del titolo in Borsa (il 10% da giovedì) e la denuncia del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Quest’ultimo, d’altronde, si è subito visto ritorta la sua presa di posizione contro Borghi: nella sua duplice – e conflittuale – veste di responsabile uscente del salvataggio pubblico di Mps, ma soprattutto di parlamentare neo-eletto proprio a Siena dopo che il suo Tesoro ha iniettato 5 miliardi nel più grave “buco” bancario italiano del dopoguerra.
Cos’è “grave” per Padoan: forse il fatto che un nuovo governo possa mettere subito in discussione la ritrovata “tranquillità statale” da parte del “groviglio armonioso” senese che lo ha appena eletto? Anche al cosiddetto Mercato andrebbe chiesto perché mostri di temere così tanto che qualcuno cominci davvero a scuotere Rocca Salimbeni. Ma non sarebbe la prima volta che l’oligopolio bancario protegge volentieri i propri segreti meno onorevoli sotto l’ala del deprecato Stato: Royal Bank of Scotland, dopo dieci anni, è ancora controllata dallo Stato britannico, così come la Merkel non riesce a disfarsi della maggioranza relativa di Commerzbank. Forse il Mercato gradisce di più un Davide Serra che da Londra annuncia a mercati aperti di comprare bond subordinati del Monte, giusto per fare un piacere al premier Renzi e al suo ministro Padoan. E forse non per amor di patria se proprio Serra è stato al centro di rumor e accertamenti sulla speculazione seguita al lungo annuncio della riforma delle Popolari (anche di quelle fallite di lì a poco, come l’Etruria).
La questione di fondo poco commentata in queste ore resta comunque questa: fu Padoan a rimuovere con una secca telefonata gli allora vertici di Mps (il presidente Massimo Tononi e l’Ad Fabrizio Viola) allorché questi erano divenuti d’ingombro a un’ipotesi di salvataggio pilotata da JPMorganChase (da lì proviene comunque l’attuale Ceo, Marco Morelli). Il Tesoro allora non aveva ancora sborsato un euro a Rocca Salimbeni: eppure quel ministro dell’Economia poté intervenire in maniera dirigistica su una banca privata, quotata in Borsa, e in gravissima difficoltà anche per le debolezze della vigilanza. Nessuno mosse o quasi obiezioni. Perché un ministro del Tesoro di un governo Lega-M5S non potrebbe oggi intervenire sulla “governance” di una banca dove sono stati impegnati 5 miliardi di risorse pubbliche? Perché non potrebbe chiedersi se il nuovo presidente (la sconosciuta “quota rosa” Stefania Bariatti) o Morelli sono le persone adatte a rilanciare il Monte verso la ri-privatizzazione imposta fra l’altro dall’Ue? Mps è oggi una “partecipazione statale” come Eni, Rai, Cdp: negli ultimi cinque anni il Pd non ha cambiato standard, anzi (l’avvicendamento di Franco Bassanini con Claudio Costamagna alla Cdp fu deciso da Renzi con una telefonata secca allo stesso Padoan).
Sarebbe “grave” che un ministro leghista o pentastellato non si occupasse da vicino di Mps: esattamente com’è stato “gravissimo” che Padoan e il governo Renzi poco o nulla abbiano fatto per evitare i crack di Siena, Vicenza, Montebelluna, ecc. Sarebbe “grave” se Lega e M5S non dessero segno di voler riprendere tutti i discorsi lasciati meno che a metà – o addirittura mai iniziati – dalla grottesca Commissione parlamentare d’inchiesta sulla crisi bancaria voluta dal Pd a fine legislatura.
Nessuno dimentica in ogni caso gli effetti “gravi” di un’altra simil-dichiarazione su Mps. Nell’ottobre 2015 il Tesoro collocò in Borsa il 33% di Poste a 6,75 euro, con una buona risposta da parte degli investitori, italiani e internazionali. Nonostante i primi dissesti bancari il titolo salì fino a 7,4 euro: fino a quando, una domenica, un grande quotidiano – allora molto vicino al governo Renzi – titolò in prima pagina che il governo studiava il salvataggio di Mps attraverso le stesse Poste. Il titolo (fra le smentite imbarazzate del Tesoro) crollò fino a 5,2 euro: con danno “grave” sia per lo Stato (impersonato dallo stesso Padoan, che in teoria era impegnato a collocare un’altra quota importante di Poste), sia per i grandi fondi e i piccoli risparmiatori sollecitati poche settimane prima a dare fiducia all’Ipo. Allora né la Lega, né M5S chiesero le dimissioni di Renzi e Padoan per danno all’Erario e al mercato. Forse avrebbero fatto meglio a farlo.