Il cambio euro/dollaro ieri è sceso sotto quota 1,20 per la prima volta da gennaio. Il movimento, accompagnato dal solito corollario di effetti sulle materie prime, è stato abbastanza rapido e ha colto di sorpresa la maggioranza degli investitori che scommettevano in un indebolimento. Ieri tutti si sono affrettati a spiegare il fenomeno. L’aumento dei costi è stata solo una delle possibili spiegazioni; quella più convincente è che mentre l’economia americana sta dando segnali positivi, e quindi la Fed sarà “obbligata” a continuare ad alzare i tassi, le altre maggiori economie del globo, Europa inclusa, stiano facendo peggio di quello che si pensava. Non è solo una questione di crescita americana, ma anche di aumento del differenziale tra andamento dell’economia americana e quello delle altre economie. Viene meno una delle tesi che si erano consolidate negli ultimi mesi e cioè che ci fosse una crescita sincronizzata delle principali economie globali. In questo scenario le banche centrali potevano muoversi in modo altrettanto sincronizzato senza dare colpi di accelerazione indesiderati al rialzo dei tassi.
I segnali positivi che arrivano dall’America, dalla fiducia delle imprese all’aumento della produzione industriale, dicono in realtà quanto poco bene si stia fuori. È ragionevole pensare che l’indebolimento del dollaro che si è visto nel 2017 e un mega piano di stimoli fiscali con il seguito di un debito pubblico in esplosione abbiano avuto un effetto decisivo. Quel che è sicuro è che, dal punto di vista americano, il rafforzamento del dollaro è l’ultima cosa in cui si potesse sperare in una fase di ridefinizione dei rapporti commerciali tra Stati Uniti, Cina ed Europa. Il rafforzamento del dollaro è un regalo fatto a chi esporta negli Stati Uniti e un danno per le imprese americane. Passare da un cambio medio di 1,25 a 1,15 fa tutta la differenza del mondo e potrebbe riassorbire o neutralizzare una parte dei dazi che potrebbero essere introdotti.
La crescita americana post-Lehman è stata completamente squilibrata. Il salvataggio del sistema finanziario con un’espansione del bilancio della Fed senza precedenti e l’esplosione delle quotazioni degli asset finanziari ha premiato moltissimo il primo 1% della popolazione che era molto prossimo ai mercati e all’intervento della Fed, molto meno la classe media e pochissimo chi era molto lontano da borsa e dintorni. L’aumento delle disuguaglianze nella società americana negli ultimi otto anni è stato notato a più riprese anche da Janet Yellen. È questa una delle ragioni profonde della vittoria di Trump: le statistiche sull’economia americana non dicevamo nulla della distorsione creata da un esperimento di espansione monetaria mai visto.
Lasciando per un momento stare le polemiche politiche su Trump, quello che conta è che gli squilibri dell’economia americana non possono continuare in eterno e che il sistema in quanto tale deve riequilibrarli. L’approccio americano, da dieci anni opposto a quello europeo, anche oggi sta mettendo la crescita davanti a tutto, debito pubblico incluso. Vale l’assunto che nessun debito è sostenibile quando le cose vanno male. Lo sforzo americano di ricostruire una base industriale e rilanciare la crescita in modo meno finanziario non può vedere bene un rafforzamento eccessivo del dollaro. Questo anzi rischia di inasprire il confronto con Cina ed Europa.