Passato al vaglio dei militanti, il contratto giallo-verde deve ancora diventare un programma di governo. Perché il governo non c’è, ma non solo. Intanto bisogna dire che tra le tante singolarità di questa fase politica una delle maggiori stranezze consiste nel fatto che non si sa ancora chi guiderà il governo. E questo getta un’ombra sullo stesso contratto, stipulato sulla testa di chi lo dovrà trasformare in un vero programma. Perché la lettura di tutte le quaranta pagine sottoscritte da Luigi Di Maio e Matteo Salvini conferma l’impressione che siamo ancora al livello di propositi elettorali, giustapposti, shakerati, emendati, ma lontani dall’indicare che cosa è davvero fattibile e che cosa si farà.



Prima di entrare nel merito va ricordato che il programma è davvero un giro di valzer da parte di una coppia solitaria perché Salvini non ha il sostegno dei due partiti della coalizione di centrodestra (anzi Silvio Berlusconi è apertamente contrario) e perché Di Maio porta avanti la sua ambiziosa corsa sentendo sul collo il fiato di Beppe Grillo e degli altri comprimari come Fico e Di Battista.



Il contratto, nonostante sia stato annacquato, contiene alcune clamorose capriole politiche, spesso veri e propri salti nel buio. Uno dei collanti tra Lega e M5S è l’antieuropeismo. Si vuol rinegoziare tutti i trattati fondamentali: campa cavallo. E nel retropensiero c’è la possibilità di arrivare a una Italexit. Obiettivo di lungo periodo, in gran parte velleitario anche tenendo conto del pasticcio creato dalla Brexit. Un altro cambiamento radicale è la linea filo-russa e la richiesta di ritirare le missioni militari all’estero. Entrambi sembrano propositi destinati a essere contraddetti dall’impatto con la realtà: la politica di Putin da un lato, la necessità di restare nella Nato e rispettarne gli impegni, dall’altro.



Ma che ne è delle promesse più importanti con le quali i giallo-verdi hanno preso i voti? Anche queste sono già state immerse in un primo bagno di realtà e ben altri seguiranno. L’esito più clamoroso è che il reddito di cittadinanza scompare. Nella sua ultima versione non è di cittadinanza (quindi universale e incondizionato), ma si tratta di una più ampia indennità di disoccupazione; non solo, è sperimentale, cominciando dal 2020 e beato chi sarà al governo a quel punto. Curioso che i pentastellati abbiano ingoiato questo smacco, ma forse l’appetito per il potere facilita la digestione dei bocconi amari.

Nemmeno la flat tax è davvero piatta come la sua definizione. Intanto si tratta di due aliquote e non di una, inoltre vengono confermate deduzioni e detrazioni per rendere l’imposta sul reddito progressiva come vuole la Costituzione e non proporzionale. Secondo le stime verrebbero fuori quattro scaglioni. L’effetto finale dovrebbe alleggerire il carico fiscale, ma per coprire almeno in parte i costi (fino a 50 miliardi secondo Cottarelli) verrà introdotto un nuovo condono, chiamato questa volta pace fiscale. Insomma, l’Italia della terza repubblica continua a basarsi sui vecchi piedistalli della prima e della seconda. Nulla di nuovo sotto il sole degli innovatori.

Lo stesso si può dire per la politica industriale: dalla rinazionalizzazione dell’Alitalia alla chiusura dell’Ilva, dal blocco della Tav fino alla trasformazione del Monte di Paschi in una “banca di servizio” (qualsiasi cosa voglia significare), siamo a una riedizione dello statalismo assistenziale, del no alla modernizzazione e dell’occupazione politica di ogni spazio economico. Per movimenti e partiti che hanno vinto cavalcando l’antipolitica, è davvero una bella contraddizione.

La nuova Italia dei vincitori, dunque, sembra un illusorio ritorno alla vecchia Italia, quella “prima di Maastricht” così ha scritto chi quella Italia era troppo giovane per averla conosciuta. La politica dell’oblio dimentica che quella Italia è crollata nel 1992 con il crollo della lira e del sistema politico. Era il Paese che in un decennio, dal 1979 al 1990, ha raddoppiato il debito pubblico, perché quelle protezioni, quell’intervento dello Stato e le stesse riforme sociali, dalla sanità per tutti alle pensioni, sono state pagate aumentando il debito, sia verso i cittadini italiani, sia all’estero. Se la crisi del 2008 qui è stata più pesante è anche per colpa di questo dato di fatto ignorato da chi sostiene che il debito non è un problema.

La scorsa domenica abbiamo scritto che il programma giallo-verde rischiava di essere un flop. La pubblicazione della bozza più radicale del contratto sembrava smentire questa interpretazione. Ma con il passare dei giorni e l’inanellarsi delle versioni e delle dichiarazioni, è apparso evidente che una cosa sono le parole scritte per garantirsi il supporto dei fan e consentire il paso doble Savini-Di Matteo, tutt’altro è quel che si può e che si farà per davvero. Su questo non resta che sospendere il giudizio.