Diciamolo chiaro, è il grande assente. Di energia nelle 58 pagine del contratto pentaleghista per un governo di cambiamento, non si parla esplicitamente se non con alcune indicazioni che ritroviamo nei capitoli sull’ambiente e quello sui trasporti. Sono tutte azioni ambiziose, anche se modestamente innovative, e più che condivisibili nella sostanza.



Nell’ultimo documento finale caricato sulla piattaforma Rousseau, nel capitolo 4 su ambiente e green economy, che esordisce con “Uomo e ambiente sono facce della stessa medaglia”, si evidenzia il deciso orientamento a favore delle fonti rinnovabili per accelerare il processo di decarbonizzazione in tutti i settori dell’economia. Per contrastare il cambiamento climatico, il documento insiste sulla necessità di defossilizzare la produzione industriale attraverso il risparmio e l’efficientamento energetico. È necessario, si legge, spingere per una riqualificazione energetica degli edifici e degli spazi urbani. “Gli immobili capaci di autoprodurre energia rappresentano la sfida del futuro. In questo senso deve essere orientata anche l’edilizia residenziale pubblica”. 



Un dubbio però ci assale: come farà il governo giallo-verde a finanziare la rigenerazione urbana e il retrofit (riqualificazione energetica) degli edifici se poi l’esistente strumento dell’ecobonus dovrà sparire con lo smantellamento del sistema di deduzioni e detrazioni previsto dalla flat tax? 

Si intuisce anche che potrebbe esserci un ripensamento sull’attuale politica di sostegno alle fonti rinnovabili molto meno generosa rispetto agli anni passati. “È necessario (…) tornare ad incrementare la produzione da fonti rinnovabili”. Vale la pena di ricordare che nel 2017 le rinnovabili rappresentavano il 36,4% della produzione elettrica italiana. L’Italia nazione virtuosa ha superato gli obiettivi 2020 grazie al contributo di tutti i consumatori i quali hanno finanziato questa transizione verso energie pulite con una delle componenti della loro bolletta: la voce “oneri di sistema” che pesa il 22,4% della spesa di luce.



Più coraggioso, invece, il programma sulla mobilità sostenibile presentata al punto 27 intitolato “Trasporti, Infrastrutture e Telecomunicazioni”, dove però non si fa affatto riferimento alle Tlc. Al fine del conseguimento e miglioramento degli obiettivi contenuti nell’accordo di Parigi si considera necessario “un percorso finalizzato alla progressiva riduzione dell’utilizzo di autoveicoli con motori alimentati a diesel e benzina di origine fossile”. Peccato che rispetto a una bozza precedente del contratto, è scomparso il divieto entro il 2030 di commercializzare i veicoli inquinanti diesel e benzina sul territorio nazionale. Coincidenza vuole che ciò avvenga proprio nel giorno in cui l’Italia viene deferita alla Corte Ue per violazione dei parametri sulla qualità dell’aria. Mentre si è salvata la proposta (definita prioritaria) di “strumenti finanziari per favorire l’acquisto di un nuovo veicolo elettrico a fronte della rottamazione”. Viene da chiedersi con quale copertura finanziaria. 

Sarebbe logico ipotizzare con un’imposta sul consumo dei carburanti quale deterrente alla mobilità fossile. Ma invece la speranza svapora subito quando si legge il punto 11 relativo al programma fiscale dove si annuncia che saranno “cancellate le componenti anacronistiche delle accise sulla benzina” quelle, per intenderci, per il finanziamento della guerra d’Etiopia del 1935-36 alla crisi di Suez del 1956 o all’alluvione di Firenze di oltre cinquanta anni fa. 

Insomma, l’energia entrerà nel programma del prossimo esecutivo con azioni rilevanti e anche valide, ma in disarmonia con altri punti del contratto. Del resto lo strabismo è una patologia comune tra i nostri politici. Basti pensare che il governatore della Puglia da un lato invoca la decarbonizzazione a favore del gas per una produzione dell’acciaio a prezzi competitivi e dall’altro intralcia il gasdotto Tap.