Non vi stanno dicendo la cosa più importante di tutte: l’Italia è fuori dai giochi di quella che, salvo repentini riallineamenti come quello palesatosi l’altra notte a Washington fra Usa e Cina, appare una battaglia epocale. I giornali sono pieni di dotte elucubrazioni politiche e politologiche sul governo che sarà, su come l’Europa sia preoccupata, su come manchino le coperture. Tutto vero. Verissimo. Nel frattempo, però, Angela Merkel ha incontrato Vladimir Putin a Sochi due volte in meno di quindici giorni ed Emmanuel Macron sta giocando una partita estremamente indecifrabile, quindi potenzialmente all’insegna del doppiogiochismo. In mezzo, l’Ue che mai come oggi appare divisa, stranita, incapace di una posizione reale di indipendenza e coerenza di fronte a quella che è, giorno dopo giorno, sempre più una guerra dichiarata a tutti gli effetti.
Ve lo dico da settimane, ora ci stanno arrivando anche i commentatori autorevoli: la guerra commerciale fra Usa e Cina, in realtà, non esiste, è un patto di mutua assistenza dal quale deve uscire sconfitto un unico soggetto: l’Europa. Dall’altra notte, come anticipavo, c’è anche la conferma ufficiale, come reso noto da un comunicato congiunto diffuso dalla Casa Bianca dopo quelle che sono state definite «consultazioni costruttive» svoltesi nella capitale americana. Le autorità cinesi si sono impegnate inoltre ad apportare «rilevanti modifiche alle leggi e regolamenti» per la protezione della proprietà intellettuale, compresa la legge sui brevetti. «Per soddisfare le necessità del crescente consumo del popolo cinese e quelle di uno sviluppo economico di alta qualità, la Cina aumenterà significativamente gli acquisti di merci e servizi Usa. Questo contribuirà a sostenere la crescita e l’occupazione negli Stati Uniti», si legge nel comunicato. E ancora: «Entrambe le parti hanno concordato su significativi aumenti nell’export agricolo ed energetico Usa. Le delegazioni – prosegue la nota – hanno discusso anche di espandere il commercio nei beni manifatturieri e nei servizi. C’è stato un consenso sulla necessità di creare favorevoli condizioni per incrementare il commercio in queste aree».
A non essere dei totali incompetenti in materia economica o in malafede politicamente non serviva certo un comunicato per capirlo. Chi stanno colpendo, fin dall’inizio della loro introduzione, i dazi Usa su acciaio e alluminio, se non il Vecchio Continente? E chi ha minacciato, ormai in maniera diretta, l’America non più tardi di 48 ore fa? L’Europa, per interposta persona. Perché dire alla Germania di abbandonare il progetto Nord Stream 2, se vuole evitare che i dazi commerciali imposti da Washington diventino permanenti, è una minaccia. Anzi, un ricatto. Bello e buono. Di fronte al quale, però, l’Europa tace perché divisa, visto che metà dei Paesi membri sono contrari a quel gasdotto che taglia fuori l’Ucraina e che, nelle premurose attenzioni degli Usa, rappresenta «un pericolo per la sicurezza energetica europea». Più che altro, rappresenta un colpo mortale alle mire americane di vendere il loro gas naturale liquefatto all’Europa, soppiantando la Russia come fornitore principale.
C’è un problema, però: che Washington antepone i propri interessi economici nella vicenda, ma vieta all’Ue di fare altrettanto. Al vertice di Sofia, infatti, pur di scongiurare quella che è ormai una guerra commerciale dichiarata, i leader europei si erano detti pronti a una maggior collaborazione con Washington sul fronte del gas, visto che gli Usa stanno palesemente cercando mercati di sbocco. Peccato che il loro gas costi il 20% in più di quello russo, utilizzando le stime conservative europee, mentre da Mosca parlano addirittura di un 25-30% in più: insomma, la Casa Bianca può cercare di imporre i propri interessi, forzando la mano sulle forniture di gas all’Europa e brandendo in tal senso la bandiera del pericolo russo. Ma quando l’Ue, leggi la Germania, cerca a sua volta di fare i propri di interessi – ovvero pagare meno il gas che acquista – ecco che arriva il ricatto sui dazi. Che tipo di rapporto è mai questo? Ma la colpa non è degli americani, i quali stanno solo sfruttando le loro pedine per spaccare ancora di più un’Europa già divisa sul tema: dividi et impera.
Certo, quando Vladimir Putin dichiara che «il gas continuerà a passare dall’Ucraina, anche dopo il completamento di Nord Stream 2, se sarà economicamente conveniente» sta bluffando, ma, anche in questo caso, trattasi di tutela di interessi particolari. Ma non basta. In questi giorni, in queste ore, l’Ue sta valutando il da farsi per bypassare anche le già annunciate sanzioni americane verso le aziende estere che collaborano e fanno affari con l’Iran, dopo l’addio statunitense all’accordo sul nucleare con Teheran. Sul tappeto ci sono diverse opzioni, tra cui il coinvolgimento delle varie Banche centrali affinché paghino esse stesse il petrolio iraniano alla loro controparte nel Paese asiatico: parliamo di un export, quello di greggio dell’Iran verso l’Ue, salito del 344% annuo nel 2016 per un controvalore di 5,5 miliardi di euro. Inoltre, potrebbe entrare in gioco direttamente la Bei con finanziamenti ad hoc per gli investimenti europei in Iran oppure l’Ue potrebbe riattivare un regolamento del 1996 (quando si volle bypassare il blocco Usa verso Libia e Cuba) che impedisce alle imprese europee di adeguarsi a sanzioni extraterritoriali: una decisione al riguardo di quest’ultima opzione è attesa entro il 6 agosto, giusto in tempo per avere delle contromisure da opporre all’entrata in vigore ufficiale delle sanzioni Usa.
C’è dibattito in Italia su questo tema, quantomeno fondamentale visto l’interscambio Italia-Iran e il fatto che le nostre aziende stiano già pagando un prezzo molto alto alle sanzioni contro la Russia? Zero. Confindustria è sul piede di guerra come lo sono gli imprenditori tedeschi? No, come se nulla stesse accadendo. D’altronde, cosa volete, siamo solo nel pieno di una guerra commerciale e l’export per le nostre Pmi conta pochissimo, vero? Troppo occupati, come al solito, in lauti buffet al Circolo canottieri oppure a Sabaudia per il weekend. Il problema è che, stando al dibattito politico e alla copertura pressoché maniacale che i media fanno dello stesso, l’italiano medio pensa che la preoccupazione maggiore in sede europea sia il “contratto” fra Lega e M5S, fingendo ipocritamente di non sapere che se Salvini e Di Maio dovessero fare davvero qualcosa di concreto contro la stabilità – già ampiamente compromessa – dell’eurozona, Mario Draghi si scorderebbe casualmente di comprare per qualche giorno e il problema si risolverebbe a colpi di spread nell’arco di una settimana. Il problema, invece, è ben più serio.
Il fatto che la Cina, di colpo, non solo si sia rimessa a comprare debito Usa, mentre tutti lo vendono – Giappone in testa -, ma abbia lanciato la proposta di acquisti di beni Usa per 200 miliardi di dollari l’anno per riequilibrare appunto il deficit commerciale parla la lingua di una pantomima che avevo denunciato fin da principio: Pechino e Washington hanno bisogno, almeno ancora per un po’, l’uno dell’altra, visto che la Cina è ben lungi dal diventare a breve un’economia basata su servizi e domanda interna e necessita di un mercato abbastanza ampio per accogliere la sua sovra-produzione di merci e la conseguente deflazione (gli Usa), mentre gli Stati Uniti non possono fare a meno di un sicuro detentore di debito, ma, soprattutto, di un Paese che non ha bisogno di lanciare Qe, visto che la sua Banca centrale opera in modalità indipendente da sempre, garantendo quell’impulso creditizio globale che ora sta però diminuendo sempre di più (la Cina).
Volete l’esempio plastico di quest’ultima dinamica, di come Cina e Usa – intese come economie e valute – siano di fatto gemelli siamesi nati dal parto incestuoso del liberismo statalista che le contraddistingue, seppur con sfumature diverse? Eccolo, plastico ed esaustivo: quando il 17 aprile scorso, la Pboc ha annunciato il taglio dei requisiti di riserva per le banche cinesi, di fatto operando una mossa di politica espansiva, ecco che dollaro e rendimento del decennale Usa hanno cominciato ad andare in ebollizione, il primo apprezzandosi e il secondo cominciando la sua corsa verso la rottura della quota psicologica del 3%. Di fatto, la mossa della Banca centrale cinese ha sortito un effetto su biglietto verde e Treasuries come se fosse la Fed a muoversi! C’è solo un problema, ovvero che la manovra espansiva cinese non ha operato in maniera ortodossa su valuta e debito Usa, visto che il dollaro ha cominciato ad apprezzarsi, mentre con un Qe proprio e diretto, la valuta in questione tende a deprezzarsi.
Ma si sa, il dollaro e le sue fluttuazioni – comunque deflattive – non riguardano solo gli Usa e la loro economia, ma tutto il mondo, a partire dai mercati emergenti ultra-indebitati in biglietti verdi, quando questi erano a buon mercato. Adesso, gli interessi su quei debiti salgono e le valute locali si schiantano, vedi real brasiliano, peso argentino e lira turca. Qual è ora la grande sfida, il cosiddetto “trilemma”? Appunto la contemporaneità di tre dinamiche pericolosissime e rarissime: dollaro che sale, prezzo del petrolio che sale e rendimenti Usa che salgono. Il tutto, paradossalmente, per una mossa di politica monetaria della Banca centrale cinese. La quale, però, ha innescato un loop che nel breve termine ha scatenato tremori sui mercati emergenti, ma, nel medio, potrebbe sortire anche altro. Se non lo sapete, ad esempio, l’80% del debito corporate canadese è denominato in dollari Usa: e sapete come sta il Canada? Eccolo, penso che non servano miei spiegazioni o didascalie. Ma non basta, perché stando a dati Fmi, il totale dell’esposizione in dollari Usa al di fuori dagli Stati Uniti e da parte di banche non statunitensi è salito a circa 14 triliardi di dollari, dai 4 triliardi del 2000. Unite l’effetto aggravante della moneta in apprezzamento a quello dei rendimenti in salita e capirete da soli che sono potenzialmente moltissime le aziende a livello globale che vedranno pesantemente messe alla prova le proprie capacità di finanziamento.
Il mondo, il piccolo mondo interconnesso dalla finanziarizzazione estrema, sta vivendo tutto questo. Proprio ora. E l’Europa si trova in mezzo, potenziale e proverbiale vaso di coccio fra vasi di ferro: davvero sfiderà gli Usa su dazi e Iran? Davvero andrà fino in fondo o, ad esempio, l’ondivaga e filo-statunitense Francia di Emmanuel Macron spaccerà per mediazione quella che sarà solo un posizionarsi per interesse nazionale al fianco di Washington? E la Germania, cosa farà con Nord Stream 2, di fatto molto più che un’infrastruttura energetica, essendo di fatto il banco di prova di un potenziale riavvicinamento fra Ue e Russia, dopo l’ubriacatura russofoba post-Crimea e post-presidenziali Usa? Capite che non stiamo parlando di normale amministrazione, di capitoli singoli e se stanti all’interno di un’agenda più ampia e complessa: stiamo parlando del futuro stesso e degli assetti di equilibrio futuro dell’eurozona e dell’euro, prima ancora che di mere relazioni bilaterali o atlantiche. E qui, cosa facciamo? Pensiamo che il futuro dell’eurozona e dell’euro dipendano dal “contratto” fra Lega e M5S e dalle mosse in politica estera di Salvini e Di Maio: davvero pensate che questi siano i problemi che tengono svegli i funzionari europei, gli sherpa che stanno trattando in questi giorni e settimane?
Non avete notato che, magicamente, il Brexit e le sue trattative sono spariti dall’agenda delle priorità? L’Europa sta giocando la sua partita più importante dal Trattato di Maastricht in poi e l’Italia è assente, rappresentata solo a livello formale da un governo che dovrebbe occuparsi dell’ordinaria amministrazione e degli affari correnti, mentre attualmente si sta discutendo e decidendo su qualcosa di storicamente straordinario e senza precedenti. Perdiamo pure altro tempo. Poi, però, non lamentiamoci. O, peggio, non diamo colpa di tutto agli eurocrati non eletti o ai tedeschi brutti e cattivi.