Dopo diversi giorni di “volatilità” con rendimento del decennale e spread in salita, ieri la borsa di Milano e dintorni si è presa una pausa. Gli indicatori sono rimasti volatili con rialzi anche violenti al diffondersi di “rumour incontrollati”: durante la giornata un rialzo improvviso dello spread veniva collegato alla conferma di Savona come ministro dell’Economia. I temi, per i mercati, sono i soliti due: le decisioni sul deficit del nuovo governo, la sua “politica economica”, e il rapporto con l’euro e l’Europa. Tutto viene ridotto a una tesi che suona più o meno così: siamo di fronte a un governo populista, irresponsabile fiscalmente, fatto di principianti che non abbandona l’ipotesi di un’uscita dall’euro.



In realtà, ci sembra che molte letture mettano insieme almeno due questioni che non hanno nulla a che fare tra loro. Una questione è se il governo italiano voglia sfidare le politiche fiscali dell’Unione Europea e i paletti sul deficit e un’altra, diversa, è quale sia la politica economica del governo: reddito di cittadinanza, Tav e infrastrutture, Alitalia, Ilva, ecc. Le due questioni sono separate perché se le migliori intelligenze del Paese, riconosciute internazionalmente, formassero un governo e poi decidessero che bisogna cambiare le regole europee o che l’Italia si meriti le eccezioni che sono state date ad altri avremmo effetti borsistici simili a quelli degli ultimi giorni.



Sul fatto che le politiche di austerity, soprattutto in fase di declino dell’economia globale, siano sbagliate c’è ormai ampio consenso; c’è anche ampio consenso sul fatto che la medicina migliore per il debito italiano è la crescita. La questione è cosa debba succedere a queste “tesi” nel rapporto con l’Europa. I cittadini italiani non possono votare le politiche europee né direttamente, né indirettamente; non possono direttamente perché il Parlamento europeo non conta niente e indirettamente perché il governo italiano non ha poteri su istituzioni comunitarie controllate, e sfidiamo chiunque a provare il contrario, da Germania e Francia. Le richieste italiane non sono all’Europa, ma a Germania e Francia e richiedono che queste due potenze cedano volontariamente il potere ottenuto durante gli ultimi venti anni di integrazione europea.



In altre parole chi chiede un’Europa diversa, con più sviluppo e meno austerity, alla fine non può non ritrovarsi contro l’Europa e i mercati che fiutano la rottura e la speculazione che può nascere nel confronto tra un Paese senza alcun meccanismo di difesa nazionale e l’istituzione che controlla, tra le altre cose, la sua banca centrale. Siamo convinti che, in questa fase, il mercato punisca innanzitutto la rottura tra Italia e l’Europa franco-tedesca a prescindere dalla bontà o meno delle politiche del nuovo governo. In una fase di guerre commerciali, ridefinizione di rapporti geopolitici globali e guerre in Medio Oriente gli effetti nel medio periodo, gli unici che contano, delle politiche del Governo italiano passano in secondo piano.

La questione in termini ancora più sintetici è se esista una strada per la ripresa italiana all’interno dei paletti europei, con l’austerity, anche in fase di recessione globale come previsto nell’attuale schema europeo; senza nessuna possibilità di misura anticiclica a debito, come accaduto per tutte le altre nazioni globali, e senza alcun meccanismo di redistribuzione interna all’Unione Europea. Se questa via non esiste all’interno dell’attuale costruzione e degli attuali rapporti di forza, fasi di volatilità come quelle di questi giorni si apriranno a fase ciclica o perché il debito lordo su Pil peggiora dopo una recessione o perché l’Italia litigando in Europa si inimica chi controlla la sua banca centrale e le sue politiche economiche.

La questione dell’euro non si pone a causa dei populisti, ma perché è assurdo pensare che all’interno della stessa Unione, con la stessa valuta possano esistere uno Stato con la disoccupazione al 5% e uno al 25% con traiettorie che per la stessa natura dell’Unione non convergeranno mai. Su questo punto fuori dall’Italia non è rimasto più nessuno che pensi che l’euro possa sopravvivere senza una vera unione politica; in cui per inciso gli italiani votano sulle tasse dei tedeschi.

La vera irresponsabilità che non spaventerebbe i mercati preoccupati del breve è fare finta che questo problema non esista e la vera responsabilità è pensare a come risolverlo se non ci sono le basi per un’unione politica e se in questo contesto non è possibile la ripresa italiana, ma anzi la sua performance continua a divergere da quella dell’Europa core. La vera alternativa è tra una rottura dell’euro incontrollata e disordinata che lascerebbe l’Italia devastata e una rottura controllata, aiutata dagli alleati internazionali che farebbe male nel breve ma riaprirebbe la possibilità di uno sviluppo. Il “mercato” farà sempre il tifo per la prima opzione e con lui chiunque voglia un’Italia e un’Europa debole.

Se si debba chiudere una delle più grandi acciaierie d’Europa, smettere di costruire i treni che collegano l’Italia al mondo o svendere le partecipazioni statali è un’altra questione. Importantissima ma diversa.

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