Il curriculum di Paolo Savona, candidato ministro dell’Economia nel governo Lega-M5S, è l’esatto contrario di quello di Yanis Varoufakis, il ministro delle Finanze che ballò solo mezza estate nella tragicommedia del 2015 fra la Grecia di Tsipras e l’Europa dei falchi tedeschi. Savona ha iniziato a occuparsi di governo dell’economia in Italia e fuori quasi sessant’anni fa nella Banca d’Italia di Guido Carli. Nella sua vita di economista e tecnocrate ha fatto tutto o quasi. Ha studiato politica monetaria al Mit di Boston con il Nobel Franco Modigliani molto prima che lo facesse Mario Draghi. Ha fatto il Direttore generale di Confindustria con lo stesso Carli, “pilota automatico” dell’economia lungo l’intera Prima Repubblica. 



È stato banchiere, Savona: amministratore delegato della Bnl e vicepresidente di Capitalia, presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi. È stato ministro dell’Industria nel governo tecnico e iper-europeista di Carlo Azeglio Ciampi, ma anche capo del dipartimento per le politiche comunitarie della Presidenza del Consiglio sotto il Berlusconi-3. È stato presidente di Impregilo e Aeroporti di Roma, consigliere di Rcs. Fino alle dimissioni di ieri è stato consigliere di Euklid, un fondo d’investimento londinese molto proiettato sull’uso dell’intelligenza artificiale. 



Savona ha conoscenza di cose e persone – anche a livello internazionale – molto superiore a quelle ritrovabili nel governo Renzi o in quello Gentiloni. E forse il “problema-Savona” sta proprio qui: non tanto nel merito di una nota freddezza verso la globalizzazione finanziaria e i Trattati di Maastricht, quanto sull’autorevolezza con la quale sosterrebbe a Bruxelles e Francoforte la nuova dialettica italiana prospettata dalla maggioranza giallo-verde. Dietro e dentro il braccio di ferro sull’economista sardo si scorge qualcosa di poco riducibile alla presunta esigenza di un “appeasement” di facciata con i poteri forti europei. 



Savona, certamente, affronterebbe senza complessi d’inferiorità e senza inutili scrupoli ogni confronto con un presidente della Commissione Ue come Jean-Claude Juncker,  capace al massimo di provocazioni mirate verso Roma, come l’ultima di ieri: “La Ue vigilerà sui diritti umani degli profughi africani in Italia”. Savona, probabilmente, saprebbe inserirsi nella frattura che si va approfondendo fra Francia e Germania sulla stesso riforma dell’euro. Perché sarà pur vero che l’Italia ha i conti in disordine – ancora ieri Bruxelles lo ha rinfacciato a Roma -, ma certamente una parte del problema (sia sul fronte del Pil che della solidità bancaria) è derivato da una gestione squilibrata dell’eurozona dopo il 2008. 

È stato semmai l’approccio demagogico – se non dilettantesco – seguito in misura crescente da Renzi a confondere due distinti piani di discussione: le richieste “congiunturali” dell’Italia di ottenere flessibilità durante una recessione durissima (ma in campo bancario la richiesta era di semplice applicazione corretta delle regole); e la richiesta strutturale da parte di un Paese fondatore dell’Unione europea per ri-esaminare patti macro-politici strizzati in formule aritmetiche e strumentalmente usati come armi di guerra economica dentro l’Unione.

“Se le creature sono mal fatte, lo saranno le politiche; se si vuole cambiare queste, occorre cambiare le istituzioni. Perciò ben venga la presa di coscienza sulla vulnerabilità della nostra economia legata all’anomalia del rapporto debito pubblico/Pil, ma la speranza è che siano respinte le promesse insulse o pericolose che peggiorano la nostra credibilità internazionale e, di conseguenza, la nostra esposizione agli attacchi speculativi”. Paolo Savona lo ha scritto una settimana prima del voto del 4 marzo. E a proposito: l’uomo che soprattutto Salvini vorrebbe a bordo del nuovo governo, già sei ani fa ha proposto un piano taglia-debito (da 130% a 100% sul Pil) basato sulla dismissione flessibile di una parte del patrimonio pubblico non strategico.

Può darsi che Savona non approdi in via XX settembre (può darsi ancora che il governo Lega-M5S non nasca). Ma il “caso Savona” sarebbe già stato utile a sciogliere qualche ulteriore equivoco nel parto difficile della Terza Repubblica.