I primi a risentirne sono stati i titoli di Stato, sotto pressione sui mercati finanziari come non accadeva da tempo. Lo spread tra il Btp a 10 anni e il dirimpettaio Bund tedesco gira intorno a quota 190 punti base. L’atteggiamento dei mercati internazionali nei confronti del nostro Paese continua a essere teso e guardingo. Il nervosismo dei mercati è causato dalla politica, o meglio dalle proposte legate alla Lega e M5s, ovvero da quando sono iniziati a circolare i contenuti del programma di governo e il nome del nuovo premier proposto a Presidente della Repubblica. Infatti, lo spread Btp/Bund ha allargato il proprio gap di circa 40 punti , fissandosi venerdì scorso a quota 155 e toccando quota 188 lunedì, per poi superare i 190. Di riflesso, il tasso decennale italiano è salito a sua volta fino al 2,23% toccando il massimo da inizio ottobre 2017.



Personalmente ritengo interessante affrontare il problema spread analizzandolo nell’ambito dell’economia reale del nostro Paese. Prendiamo ad esempio i casi Fincantieri e Atlantia. Ambedue queste società hanno avviato in data 21 maggio i propri roadshow, ovvero gli incontro con investitori internazionali che potrebbero essere interessati all’acquisto di nuove emissioni obbligazionarie. Proprio da questo caso si vedrà che, se le due società italiane sbarcassero sul mercato con prime emissioni italiane di bond dopo le elezioni del 4 marzo, ciò significherà, de facto, che la tensione di questi giorni sul nostro Paese e quindi sullo spread non ha avuto un impatto reale sull’imprenditoria italiana. Nel caso in cui, invece, decidessero di bloccare tale operazione, ciò significherebbe che gli investitori internazionali, a fronte di un possibile acquisto di bond vorrebbero avere riconosciuti rendimenti più elevati del previsto: ciò confermerebbe che l’effetto spread è già partito.



Nel merito ritengo che lo spread sia un termometro funzionale e determinante per “l’effetto Paese” e quindi non vada mai sottovalutato e anzi preso in seria considerazione. Nel dettaglio economico e finanziario di un Paese, se è vero che uno Stato non debba mai inginocchiarsi alla grande finanza internazionale, è altresì vero che quest’ultima può metterlo in ginocchio in “tempo zero”. Storicamente si vede che le ultime crisi economiche e sociali sono state sempre generate da crisi finanziarie: basti pensare alla recessione italiana che è stata “figlia” della crisi dello spread del 2011/2012. Si tratta di un circolo vizioso nel quale, quando lo spread sale il paese Italia è costretto a pagare interessi sul debito più elevati rispetto al paese Germania (quotazione base di efficienza economica), ciò perché gli investitori lo considerano meno affidabile.



Attenzione però: a soffrirne di più di questo stato dell’arte non è il Paese preso in oggetto in senso stretto, bensì le sue imprese. Di fatto, se sale lo spread sui titoli di stato aumentano proporzionalmente i tassi di interesse che le banche dovranno pagare per reperire finanziamenti propri sui mercati. Ne consegue che, se le banche sono costrette a pagare tassi più elevati, a loro volta, come sempre, girano maggiori costi sui nuovi prestiti concessi alla clientela. In definitiva lo spread ha vita nell’ambito della grande finanza, ma, guarda caso, finisce sempre  sulla pelle dell’imprenditore e del cittadino.