Le criptovalute sono sporche. Non perché Bitcoin, Ethereum, Litecoin, Ripple e le altre monete del mito libertario siano apprezzate nelle transazioni sul Deep Web oppure richieste come riscatto negli attacchi di pirateria informatica, bensì per colpa della loro impronta ambientale. La loro creazione e scambio è un sistema particolarmente energivoro e quindi responsabile di emissioni di CO2. La blockchain, il protocollo sottostante per la validazione delle transazioni in criptomoneta senza intermediari, si fonda su una rete peer-to-peer di computer che vigilano collettivamente per tenere traccia delle transazioni ed evitare che la stessa moneta sia utilizzata più volte.



Ogni singolo conio è generato da un processo competitivo e decentralizzato chiamato mining dove computer in competizione tra loro sono “remunerati” per la notevole potenza di calcolo messa a disposizione per confermare i passaggi attraverso un consenso distribuito. Ogni qualvolta, in genere ogni 10 minuti, riescono ad aggiudicarsi l’anello che va a concatenarsi a quello precedente della blockchain, il computer viene premiato con 12,5 nuovi bitcoin. Quest’attività implica la disponibilità di molti computer che macinano complicati problemi crittografici a doppia chiave, pubblica e privata, di potenti impianti di ventilazione per raffreddare le webfarm e soprattutto di tanta elettricità a buon mercato.



L’opacità che circonda questo business porta solo a generiche indicazioni dei chilowattora assorbiti. Il New York Times scrisse che “l’energia consumata per ottenere ogni bitcoin è pari a quella usata in due anni da una famiglia americana media”. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista specializzata Joule ha approfondito l’argomento relativamente ai 17 milioni di bitcoin attualmente esistenti rispetto al tetto di 21 milioni fissato da Satoshi Nakamoto, pseudonimo dello sviluppatore giapponese che nel 2009 ha immaginato un sistema monetario digitale senza il controllo di un ente centrale. Lo studio conclude che la potenza necessaria complessiva è di 2,55GW equivalente a un consumo annuale di oltre 22TWh. Siamo nell’ordine di poco meno della domanda totale di elettricità in Italia nell’ultimo mese di aprile (24TWh).



Secondo Alex de Vries autore della ricerca, è plausibile che entro l’anno la potenza aumenti a 7,67GW portando così il consumo elettrico a quello di un intero anno della Repubblica Ceca (67TWh). Ossia lo 0,8% della bolletta dell’intera umanità. E la tendenza non può che accentuarsi: il protocollo per la creazione di bitcoin è progettato in modo tale che il costo di produzione marginale dei nuovi “coni” sia incrementale. Più aumenta il numero di minatori, più diventa difficile fare profitto. La bolletta rappresenta il 60% del costo dell’attività di mining. Il punto di pareggio è rappresentato dal costo di funzionamento dell’intera rete di bitcoin, hardware ed elettricità, corrispondente al valore della criptovaluta estratta.

Difficile fare previsioni su una valuta altamente volatile. Negli ultimi 18 mesi il corso del bitcoin ha seguito la traiettoria di un ottovolante: si è moltiplicato per dieci, precipitato del 75%, e raddoppiato nuovamente, alimentando le pressioni speculative. Per come si prospetta il sistema delle 34 criptovalute esistenti potrebbe benissimo arrivare a consumare 5% dell’elettricità mondiale, secondo de Vries un’insostenibile insensatezza ambientale.

Si può obiettare che l’energia consumata non è necessariamente generata da fonti fossili. Molti minatori per risparmiare sul costo dei sistemi di climatizzazione dei centri di server si stabiliscono in paesi freddi: Islanda, Svezia, Canada, Georgia e Stati Uniti. Ai fini della lotta contro i cambiamenti climatici, è meglio macinare criptovalute in Islanda dove l’elettricità proviene per il 70% dall’idroelettrico e il restante dalla geotermia, altra fonte pulita. Tuttavia la Cina rimane la destinazione numero uno; e per quanto notevoli siano i suoi sforzi di diversificazione, il mix energetico cinese è per due terzi coperto da carbone.