Non si può dubitare della buona fede personale e istituzionale di un presidente della Repubblica come Sergio Mattarella: se ha detto in diretta tv che la nascita del governo Lega-M5S con Paolo Savona all’Economia avrebbe messo a rischio i risparmi degli italiani bisogna credergli e rispettare le sue scelte. Una democrazia funziona così: l’impeachment va bene per un presidente che tradisce il suo Paese, non per uno che si assume le sue responsabilità ultime. E poi il parere finale, al Quirinale, è quasi sicuramente giunto dal presidente della Bce, Mario Draghi: chi, tutt’oggi, avrebbe potuto ignorarlo?
Nelle prerogative costituzionali del Capo dello Stato c’è la valutazione ultima di ciò che è bene per il Paese: lo confermano i giuristi e lo dice una lunga esperienza. Resta il fatto che per la seconda volta in sette anni il Quirinale ha dovuto esercitare questa autorità legittima, ma inequivocabilmente eccezionale: in entrambi i casi sotto la pressione dello spread sovrano in peggioramento.
Il riaccendersi dell’emergenza è la prima e più importante differenza fra l’intervento deciso di Giorgio Napolitano nel 2011 sul governo Berlusconi e quello di Mattarella ieri sera contro l’alleanza Lega-M5s: perché nel 2018 l’Italia è ancora a rischio-spread? In mezzo c’è stato il riformismo tecnocratico di Mario Monti e poi il quinquennio di governo da parte del Pd: come mai il rapporto debito/Pil è rimasto critico, il primo non è stato neppure intaccato e il secondo non è stato davvero rilanciato come altrove in Europa?
Poco conta se la domanda sarà al centro di una nuova campagna elettorale oppure orienterà il programma di un “governo del Presidente” non solo di transizione. Può sembrare un’ipotesi fantapolitica, ma quando ieri sul Corriere della Sera l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina è sembrato delineare un percorso di conciliazione fra Italia e Ue, ha solo confermato che fra finanza e politica “figure autorevoli” sono al lavoro per sostenere l’iniziativa annunciata da Mattarella: presumibilmente cercando i voti in Parlamento da M5S, Pd, Leu e magari da altri “neo-responsabili”, ad esempio nelle fila di Forza Italia.
Mattarella, certamente, si è assunto lui stesso una responsabilità in più rispetto a quelle di cui si è via via caricato nelle ultime settimane: quella di evocare davanti agli italiani tutti gli spettri del “risparmio tradito”. Lo spread è la minaccia macroeconomica verso i risparmi delle famiglie così come lo era l’inflazione a due cifre negli anni 70. L’euro e poi la Bce, non c’è dubbio, con il Quantitative easing sono stati la garanzia macro alla stabilità economico-monetaria italiana: è comprensibile – anche se solo in parte – che un governo di un grande Paese europeo che volesse ridiscutere i Trattati di Maastricht possa essere visto con preoccupazione dai paesi-partner. È pur vero tuttavia che – dopo Brexit – la Francia per prima ha posto la questione della riforma dell’euro sul tavolo dell’Europa germanocentrica.
C’è d’altro canto un “risparmio tradito” che non ha a che fare con l’unione monetaria ma con le regole della nuove vigilanza bancaria gestita dalla Bce: è quello variamente bruciato nei diversi crack bancari e relativi salvataggi. Operazioni tutte condotte dal governo Renzi: da quel Pd che ha poi eletto lo stesso Mattarella al Quirinale. Ci sono i miliardi spesi per tenere a galla Mps, ci sono i misteri del “caso Boschi”, ci sono stati – prima dei diktat respinti da Mattarella sull’euroscettico Savona – i molti diktat tecnocratici di Eba e Bce a senso unico o preferenziale sulle banche italiane. È stato un gesto di coraggio da parte di Mattarella rivendicare a sé un’azione di tutela del risparmio degli italiani più ampia e incisiva di quella che promettevano Lega e M5S in termini di rapporti più dialettici con la Ue e la Bce. Però – se nei prossimi mesi l’Italia sarà governata da un “esecutivo del Presidente” – nessuno avrà più alibi.