In base ai dati Istat rilasciati ieri, a marzo in Italia gli occupati continuano a crescere (+0,3% rispetto a febbraio, con un tasso di occupazione che si attesta al 58,3%) e il tasso di disoccupazione resta stabile all’11%. Nel primo trimestre 2018, però, come già anticipato in parte dai dati sulla produzione industriale e dall’indice Pmi dell’attività manifatturiera che misura la capacità di acquisizione di beni e servizi, la ripresa italiana sta perdendo slancio. Secondo la stima flash sul Pil, infatti, nel primo trimestre la crescita è stata dello 0,3% rispetto al trimestre precedente, mantenendosi così sugli stessi livelli di fine 2017, ma con un lieve rallentamento, sufficiente a far calare il Pil tendenziale dal +1,6% al +1,4%, un decimale sotto la previsione formulata dal governo con il recente Def a politiche invariate. Tenendo conto che anche in Europa la crescita risulta più moderata (+0,4% nel primo trimestre, fonte Eurostat), che permangono le incognite di shock protezionistici e che l’incertezza politica legata alla formazione del nuovo governo resta sempre ingarbugliata, c’è di che preoccuparsi?



“No, una crescita dello 0,3% – risponde Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison – non sfigura affatto, anche a confronto con i tassi degli stessi Paesi del G-7. Prendiamo, per esempio, gli Stati Uniti, che pure hanno un’economia diversa e un diverso modello di crescita: hanno fatto segnare un +0,6% trimestrale, ma si tratta di uno dei tassi di crescita più lenti degli ultimi anni. E se teniamo conto delle dinamiche demografiche, che negli Usa sono ancora molto forti, questa crescita non si traduce in un aumento, se non lievissimo, del Pil pro capite”.



Anche nel confronto con i big europei l’Italia non sfigura?

La Francia ha fatto +0,3% come noi e il Regno Unito solo +0,1%. Il dato tedesco non è ancora stato pubblicato ma, a meno che non abbia messo mano a operazioni straordinarie di spesa pubblica o in infrastrutture, la Germania, dove peraltro si registra una caduta degli indici di fiducia e dell’export, potrebbe realizzare nel primo trimestre una performance all’italiana. Dunque, tornando al nostro +0,3%, è un dato che io benedirei.

Perché?

In uno scenario di decelerazione della produzione industriale e dell’export che sta investendo l’Europa, va ricordato che l’Italia ha fatto registrare nel primo bimestre un tasso di crescita dell’export più alto di tutti gli altri Paesi. E poi ci sono altri indicatori, spesso sottaciuti, che sono positivi.



Quali?

Anche se ora registrano un leggero e fisiologico rallentamento, gli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto negli ultimi due anni sono cresciuti in termini reali del 16,4%, un’accelerazione che, da un lato, è frutto dello straordinario turnaround delle nostre industrie e, dall’altro, dimostra quanto il programma Industria 4.0 stia funzionando bene.

E i consumi?

Negli ultimi 20 anni i consumi delle famiglie italiane non sono mai stati storicamente i driver principali della crescita. Ebbene, l’Italia è stata prima tra i 10 paesi più ricchi dell’Europa quanto a crescita dei consumi pro capite nel 2015, terza nel 2016 e di nuovo prima nel 2017. In termini reali abbiamo recuperato 35 miliardi di potere d’acquisto. Ma a testimoniare l’eccezionalità del risultato è giusto ricordare che l’Italia può sfruttare solo questi due “pistoni” della crescita – appunto, consumi delle famiglie e investimenti privati -, perché gli altri due sono praticamente inutilizzabili: i noti e stringenti vincoli di bilancio ci impediscono di far crescere la spesa pubblica e gli investimenti in costruzioni, specialmente le opere pubbliche, che infatti non riescono a ripartire.

All’orizzonte si profilano le nubi minacciose delle guerre commerciali. Trump ha dato all’Europa un mese in più prima di decidere se rendere permanente l’esenzione dei dazi su acciaio e alluminio oppure far entrare in vigore le sanzioni. Come deve muoversi l’Italia, che è pur sempre la seconda potenza manifatturiera della Ue?

Non avendo in questo momento un governo, e oltretutto non se ne vede una soluzione all’orizzonte, l’Italia sta giustamente mantenendo una posizione caratterizzata da buon senso e toni bassi. Sarebbe per noi motivo di grave preoccupazione un’eventuale escalation di dazi, ritorsioni e guerre commerciali.

Quale sarebbe l’impatto per il nostro export?

Stiamo vivendo una fase di crescita faticosa, in cui la nostra bilancia commerciale gode di un surplus di 40 miliardi, che per l’industria manifatturiera vale addirittura 90 miliardi. Tra il 2007 e il 2017 abbiamo cambiato, migliorandola, la nostra bilancia commerciale e anche la posizione finanziaria estera, che era negativa per il 25% del Pil, ora sta andando verso un -5%, quando negli Usa è ancora al -25%. L’Italia ha dunque bisogno dell’export per non peggiorare i suoi conti con l’estero. Le nostre esportazioni tengono bene in Cina e negli Stati Uniti, ma anche Francia e Spagna hanno aumentato le loro quote di import dall’Italia. Quindi l’introduzione dei dazi, la chiusura degli scambi e l’aggrovigliarsi degli spazi commerciali sortirebbero sicuramente gravi ripercussioni.

Per esempio?

Rischiano di raffreddare gli spiragli degli investimenti privati, che nel nostro paese sono realizzati soprattutto dalle imprese manifatturiere e da quelle esportatrici in prima fila. Uno slancio, certo, favorito anche dalle misure fiscali, ma di fronte al rabbuiarsi dello scenario globale le imprese ci penserebbero prima di investire.

In questa fase il negoziato sui dazi con gli Usa viene gestito da Francia, Germania e Regno Unito. Non rischiamo di rimanere con il cerino in mano come è successo nel caso delle sanzioni alla Russia?

Con la Russia abbiamo subìto degli evidenti contraccolpi, ma non siamo stati gli unici a rimanere con il cerino in mano. Ripeto, va assolutamente evitata un’escalation di dazi e ritorsioni perché questo potrebbe aprire scenari che rischiano di sfuggire di mano e scatenare reazioni imprevedibili. Imporre dazi è come mettere delle mine di notte, sulle quali poi si rischia di saltare quando ci devi passare di giorno. E il rischio è che sulle mine ci saltino pure quelli che le hanno piazzate.

(Marco Biscella)