Valutare gli impatti che un’attività economica ha sull’ambiente considerato a 360 gradi, ossia sul tessuto sociale, non significa semplicemente cercare di limitarne i danni o l’invadenza ambientale, ma andare al di là della visione della massima profittabilità possibile, comunque sempre risicata e dannosa se circoscritta a se stessa; significa, insomma, andare al di là del proprio ombelico, che rappresenta oggi – come ho già avuto occasione di dire – la questione antropologica principale.



Lo sviluppo dei temi legati alla sostenibilità (la cosiddetta “Esg”, Environmental, Social and Governance) sembra destinato a giocare un ruolo preponderante nell’analisi dei processi di investimento in ambito finanziario: secondo un’indagine globale condotta da State Street Corporation su oltre 500 investitori istituzionali, soltanto il 35% teme che l’approccio sostenibile agli investimenti possa penalizzare le performance realizzate, mentre il 60% del campione denuncia la carenza di regole e standard di settore per dare trasparenza ai fattori Esg e il 46% vorrebbe una presenza maggiore e costante di reportistica Esg nell’ambito della documentazione societaria per assumere consapevoli decisioni di investimento.



All’inizio dell’anno Jana Partners e il Fondo Pensione degli insegnanti della California (“CalStrs”) hanno inviato una lettera di engagement alla Apple per sensibilizzare l’azienda sugli effetti negativi dell’eccessiva dipendenza da smartphone da parte di bambini e adolescenti, causa di forme depressive e persino tendenze suicide, sollecitando il produttore a sviluppare meccanismi di controllo e di tutela a beneficio dei genitori per prevenire pericolose patologie. I due investitori detengono una piccola partecipazione azionaria in Apple, ma la lettera è stata pubblicata sulla homepage del Wall Street Journal e trascurarne il contenuto potrebbe essere giudicato un comportamento irresponsabile da parte dell’azienda high tech con possibili riflessi – anche consistenti – sui conti economici. Naturalmente, si può continuare a essere scettici se si pensa che, nonostante il polverone suscitato dalla vicenda Cambridge Analytica e le interrogazioni parlamentari subite da Zuckerberg, Facebook ha avuto un redditività nel primo trimestre dell’anno addirittura superiore alle attese (utile netto di 5 miliardi di dollari, in crescita del 63% su base annua); su queste tematiche, tuttavia, siamo ancora agli inizi e lo scetticismo in fondo non porta mai a un risultato.



In Italia, ad esempio, il rapporto sul benessere equo e sostenibile (“Bes”), presentato lo scorso dicembre dall’Istat, è giunto alla sua quinta edizione e alcuni indicatori Bes, tra cui la diseguaglianza reddituale e la povertà assoluta, sono stati introdotti dal Legislatore nel ciclo delle politiche economiche dello Stato. Vengono presi in esame 12 diversi domini non strettamente economici, quali salute, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, relazioni sociali, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, in modo da misurare il livello di benessere integrando diversi aspetti funzionali alla persona.

Per tornare alla finanza, si tratterebbe di porre in questione il meccanismo stesso che generalmente soggiace alle scelte operative, secondo alcuni immorale per definizione e perciò irredimibile: massimizzare il profitto a ogni costo negoziando capitali. Così, scommettendo sul fallimento di aziende, o peggio ancora di interi Stati in difficoltà, si possono fare ricche plusvalenze, non curandosi delle ripercussioni su lavoratori e cittadini; oppure vendendo titoli di aziende floride quotate in borsa si possono indurre scelte gradite al potere impersonale del mercato, indipendentemente dal valore complessivo economico e sociale (è, per inciso, uno dei motivi per cui Michele Ferrero non ha mai voluto quotare la propria azienda).

In quest’epoca di transito (preferisco chiamarla così piuttosto che di uscita dalla crisi) siamo certamente di fronte a un bivio, tra la ripresa di vecchi paradigmi fondati sulla finanziarizzazione dell’economia e sull’equazione uomo=consumatore e lo sviluppo di una nuova mentalità, “generativa”, come viene definita da tanti studiosi, che non arretra su di sé tutta la realtà ed è radice di una nuova economia fondata sul valore condiviso, secondo le parole degli economisti Porter e Kramer: “Il concetto di valore condiviso riconosce che sono i bisogni della società e non solo i bisogni economici convenzionali a definire il mercato. Riconosce anche che i danni sociali e i problemi sociali creano frequentemente dei costi interni per le aziende […]. Il valore condiviso consiste nell’espandere la dotazione complessiva di valore economico e sociale” (cit. in M. Magatti / C. Giaccardi, Generativi di tutto il mondo unitevi!). Può trattarsi di piccoli segnali, ma vanno scoperti e incoraggiati.