Ieri il fondatore del maggiore partito italiano, Beppe Grillo, ha rilanciato la proposta di un referendum sull’euro. Non è chiaro se si tratti dell’anticipo di una nuova campagna elettorale, se l’annuncio sia successivo alla percezione che le ultime vicende politiche abbiano appannato il Movimento 5 stelle oppure se sia parte integrante del programma del Movimento. Quello che è abbastanza chiaro è che l’ipotesi sia stata salutata come una “boutade” su cui è impensabile anche solo intavolare una discussione. L’uscita dall’euro è un tabù assoluto: questa “percezione” rimane una certezza.
L’altra certezza a questo proposito è la distanza crescente tra il dibattito italiano sulla questione e quello che si legge sulla stampa internazionale in cui si sta da molti trimestri consolidando un’idea molto diversa sull’euro. Prendiamo solo uno degli ultimi esempi in ordine cronologico e facciamo riferimento a un articolo pubblicato il 25 aprile sul Washington Post. Non esattamente un covo di “populisti”.
L’articolo è, tra l’altro, sorprendentemente benevolo nei confronti dell’Italia. E prende le mosse da questa constatazione: se è abbastanza intuitivo spiegarsi come mai la Grecia, con i conti fuori controllo, o la Spagna, con una bolla immobiliare, abbiano fatto così male sotto l’euro, è più difficile spiegarsi, nonostante la burocrazia, come un Paese come l’Italia non sia cresciuto da 20 anni. La vera questione però è come mai anche la Finlandia, che in teoria ha sempre fatto tutti i compiti a casa, abbia un Pil che è l’11% sotto quello svedese dal 2011. L’osservazione è stata fatta già dal premio Nobel Krugman nel 2015.
La risposta che si dà l’articolo è questa: quando l’economia del Paese nordico è andata in crisi a causa delle difficoltà di Nokia il Paese non ha “potuto rispondere” con una svalutazione della moneta, ma ha dovuto tagliare salari e posti di lavoro. Questa risposta causa molti più danni, non foss’altro perché molto più lenta dato che le persone non vogliono rimanere a casa, e anche se l’economia alla fine si aggiusta il risultato è molto peggiore di quello che si sarebbe raggiunto nel primo modo; al punto che il differenziale aperto con le economie che nel frattempo sono andate normalmente non si recupera più. Infatti, il differenziale aperto dalla Finlandia con la Svezia non si è ancora chiuso.
Questa non è la storia della Finlandia, questa è la storia dell’euro. Siccome c’è una banca centrale per tutti, una valuta per tutti, lo Stato non ha nessuno strumento anticiclico autonomo e l’Europa in quanto tale non ha meccanismi di redistribuzione interna quando le cose vanno male, l’unica risposta è l’austerity e la deflazione interna che alla fine devasta le economie. L’esempio greco è il più lampante. Se la Grecia avesse svalutato la sua moneta, i greci oggi non avrebbero un’economia interna distrutta con una disoccupazione fuori scala, un fenomeno devastante socialmente almeno quanto economicamente, e avrebbero avuto i mezzi per uscirne più velocemente con un recupero di competitività più veloce ed efficace di quello dell’austerity. In questo schema sulla stampa internazionale si legge sempre più spesso che il Paese che più ha fatto le spese dell’euro è proprio l’Italia.
La lezione secondo il Washington Post è che nell’euro è meglio essere fortunati che bravi. O meglio, diremmo noi, che è meglio essere tra i fortunati per cui è stato pensato e che lo controllano che bravi. L’Italia fuori dall’euro avrebbe avuto gli stessi problemi, ma avrebbe avuto più mezzi e più flessibilità per affrontarli, a partire da una svalutazione della moneta che avrebbe fatto benissimo a un sistema industriale che sarebbe sopravvissuto sia alla crisi del 2008 che del 2011, mentre con l’euro è stato irrimediabilmente compromesso. Meglio pagare più tassi di interesse, con il risparmio italiano, o andare meno in America per qualche anno che ammazzare il proprio sistema produttivo permanentemente. L’Europa, infatti, non offre nessuna vera alternativa per l’economia “reale”; nessuna detassazione, nessun sussidio, nessuna metropolitana, nessuna fabbrica. Sempre il Washington Post chiude l’articolo così: “L’unica cosa più ingiusta della vita è l’euro”.
La questione oggi si pone in questi termini: tutte le volte che c’è una crisi nell’attuale impianto dell’Unione europea e dell’euro emergono, via economia, forze centrifughe sempre più forti a cui si può rispondere solo con una sospensione della democrazia dei Paesi che vorrebbero e dovrebbero uscire. Basta guardare cosa succede in Grecia o in Italia con l’ultimo primo ministro eletto fatto fuori dall’Europa nel 2011 per capire che le coste stanno esattamente così. Noi ci chiediamo solo come mai certe domande se le possano fare a Washington e non a Roma dove, se hanno ragione Krugman e il Washington Post, sarebbero molto opportune. L’euro è nudo, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Il coraggio che serve oggi è quello di trovare un modo il più possibile condiviso, dentro e fuori l’Europa, per chiuderlo ed evitare che faccia ulteriori danni.