In primavera è tempo di consuntivi. E anche di preventivi. Nelle ultime settimane sono stati presentati in più occasioni (eccellente quella sintetica e tagliente illustrata al convegno annuale della Rivista di Studi Politici Internazionale tenutosi il 2 maggio nella Sala della Regina della Camera dei deputati) raffronti sulla faticosa uscita dalla crisi iniziata nel 2008 dai principali Paesi dell’Unione europea. Escludendo la Grecia (sul cui ingresso nell’eurozona erano stati espressi molti dubbi anche all’interno delle istituzioni europee), l’Italia è l’ultima in classifica: siamo ancora lontani dal tornare al Pil raggiunto ante-crisi, in termini di reddito più capite ci ha superato la Spagna (e rischiamo anche il sorpasso del Portogallo), i tassi di disoccupazione permangono elevatissimi e via discorrendo.
Il 4 maggio, la Commissione europea ha illustrato le previsioni dei propri uffici per il 2018 (già arrivato quasi a metà anno) e il 2019. In estrema sintesi, si stima un rallentamento della già debole crescita del Pil: dall’1,5% (media eurozona 2,3%) all’1,2% (media eurozona 2%). Nell’illustrarle, il Commissario europeo preposto agli affari economici e monetari ha lapidariamente detto che l’Italia non fatto nulla per ridurre il disavanzo strutturale dei conti pubblici. Il ministero dell’Economia e delle Finanze del nostro Paese ha controbattuto che “la contabilità economica definitiva, disponibile nella primavera 2019, mostrerà un andamento in linea con le regole europee”. Una frase, dunque, che potrà essere aperta a diverse interpretazioni e che comunque dovrà essere confermata o smentita da un Governo differente da quello oggi in carica per l’ordinaria amministrazione.
Questi dati di cronaca economica sono eloquenti in materia di nodo di fondo dell’Italia: nell’ultima legislatura non c’è stata politica economica. Non si può chiamare tale, infatti, un’azione politica che ha avuto come obiettivo principale quello di ottenere flessibilità nei conti pubblici da disperdere a pioggia in regalie (dagli 80 euro alle assunzioni a pioggia nella Pubblica amministrazione di centomila precari) riducendo, nel contempo, al minimo storico gli investimenti pubblici. C’è stata – ha detto un noto economista – un’alleanza tra il partito delle rendite (si pensi, tra i tanti esempi, al caso non ancora risolto delle informazioni sulle banche popolari) e il partito delle mance che ha schiacciato i ceti che lavorano e che producono.
Per questa ragione di fondo, è estremamente preoccupante che a oltre due mesi dalle elezioni del 4 marzo si navighi nel buio più profondo in materia di formazione di un Governo che dia una politica efficace a questo Paese. Come sottolineato su questa testata, il Governo Gentiloni in carica per l’ordinaria amministrazione ha presentato un “Def senza qualità” privo di contenuti di politica economica anche se prima dell’ormai imminente estate occorre effettuare una “manovra di aggiustamento” di almeno 5-8 miliardi per il 2018 e si devono disinnescare le clausole di salvaguardia (12,4 miliardi per il 2019 e 19,1 per il 2020); è necessario, poi, trovare “per spese indifferibili” (si legga finanziamenti a Inps, Anas, missioni internazionali e simili) 16-17 miliardi. Ciò richiede una politica di finanza pubblica che può trovarsi solamente nell’ambito di una politica economica con obiettivi chiari e condivisi e strumenti anche essi chiari e condivisi. Possibile unicamente con un Governo nel pieno delle sue funzioni e con forte supporto parlamentare.
In questa politica economica deve, naturalmente, avere spazio anche l’azione internazionale. Da mesi, l’Italia è quasi sparita dai tavoli che più contano. Per non citare che i più importanti: quello del negoziato commerciale con gli Usa per evitare misure protezionistiche che ci danneggerebbero gravemente – conducono il gioco Francia, Germania e Gran Bretagna -; quello della riforma della governance dell’eurozona – c’è una proposta di matrice franco-tedesca osteggiata dal “gruppo degli otto Stati nordici”. Nel contempo, un sottosegretario uscente si balocca con un ipotetico “Trattato dell’Eliseo”.
Oggi 7 maggio, il Presidente della Repubblica ha in programma un ultimo rapido giro di consultazioni al termine del quale dovrebbe dare un incarico a formare un Governo. La situazione economica chiaramente afferma che non si dovrà cercare un Esecutivo di breve periodo che prenda i provvedimenti essenziali e cerchi consenso perché il Parlamento produca una nuova legge elettorale per tornare tra pochi mesi alle urne. Tra un anno l’Italia di accusare ferite ancora peggiori di quelle di oggi.