La nota mensile dell’Istat conferma che in aprile nell’economia italiana “si rafforzano i segnali di rallentamento, delineando uno scenario di minore intensità della crescita”. In particolare, la produzione del settore manifatturiero e le esportazioni hanno registrato alcuni segnali di flessione, l’occupazione è tornata ad aumentare, anche se quella femminile ha segnato una pausa, e calano gli indici di fiducia delle imprese e delle famiglie. A questo rallentamento, poi, va aggiunto il quadro politico, che a oltre 60 giorni dal voto del 4 marzo, non ha saputo trovare il bandolo della matassa per la formazione di un nuovo governo, inducendo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a dar vita “a un governo neutrale, di servizio, non di parte fino a dicembre”, per portare poi il Paese alle elezioni. Ma resta aperta la possibilità di andare al voto anticipato, anche se “votare a luglio è inopportuno e in autunno è rischioso”, e la decisione – ha sottolineato il Capo dello Stato – tocca ai partiti in Parlamento. Ma cosa implica questa situazione per la nostra economia e per i nostri conti pubblici? Lo abbiamo chiesto a Francesco Daveri, professore di Macroeconomia all’Università Bocconi di Milano.
Ieri la nota mensile dell’Istat ha segnalato che in aprile l’economia italiana ha rallentato. Secondo lei, qual è il segnale più preoccupante: l’export, la produzione industriale, il clima di fiducia?
Il più preoccupante è certamente il dato della produzione industriale, anche se finora abbiamo avuto indicazioni contrastanti, visto che a gennaio e febbraio l’andamento è stato negativo, poi a marzo si è registrata una risalita dell’indice. Senza ripresa di qualità della produzione industriale, sebbene la manifattura pesi ormai solo per il 16%, non potremmo avere una ripresa solida del Pil italiano. La manifattura è per noi importante come traino di progresso, di innovazione e di competitività. Il dato sulla fiducia delle imprese è invece meno preoccupante.
Perché?
È vero che la fiducia delle imprese ha subìto un cedimento, ma al momento la correlazione tra gli indici di fiducia e le decisioni di spesa e di investimento delle imprese non è così stretto. Aspettiamo l’evolvere della situazione.
Le minacciate e imminenti guerre commerciali, nonché l’annunciato rallentamento della crescita in Germania, non rischiano di aggravare le prospettive?
Sono senza dubbio scenari da monitorare con molta apprensione. La Germania resta la locomotiva dell’Europa e, in caso di frenata della sua economia, i primi a soffrirne le conseguenze sarebbero i nostri sub-fornitori di lusso dell’automotive tedesco, con ulteriori effetti negativi sull’export. C’è, poi, da considerare che l’Europa va bene solo se tutti i suoi Paesi vanno bene. Le rivendicazioni su questo o quel sorpasso a danno di altri sono solo beghe da cortile. Bisogna stare molto attenti che non si verifichi un rallentamento generale dei Paesi europei, perché questo sarebbe il segnale di una nuova recessione in arrivo. Per ora, per fortuna, non si corre questo pericolo.
Eurostat ha però messo in guardia su un rallentamento anche dell’Europa, non solo dell’Italia. Con quali possibili impatti sui nostri conti pubblici?
Lo scenario, è vero, sta peggiorando, ma bisogna capire se è congiunturale o più strutturale. Il primo trimestre 2018, infatti, si è confrontato con un quarto trimestre 2017 che è stato super. Il rallentamento, dunque, non è una gran notizia, anche perché la Ue continua a marciare a un ritmo di crescita previsto al 2,5%, con l’Italia al +1,5%, stime che, se guardiamo agli ultimi dieci anni, stanno nella parte top della forchetta. Quindi, meglio aspettare di vedere che cosa succederà nel secondo trimestre, anche perché l’indice Pmi rilevato da Markit, pur segnalando una frenata, resta su valori che confermano il trend di crescita. Non c’è alle porte nessuna inversione di tendenza, quindi non vedrei al momento grosse preoccupazioni sulla tenuta dei nostri conti pubblici.
Intanto Mattarella, vista l’incapacità dei partiti a trovare un’intesa, ha deciso di far nascere un governo neutrale, di servizio, in carica fino a dicembre, a meno che le forze politiche non riescano a trovare prima una maggioranza in grado di formare un governo. Insomma, un governo di tregua…
Se il governo di tregua durasse poche settimane, non ci sarebbe da mettere mano alle clausole di salvaguardia o al varo di una manovra d’autunno. Secondo me, infatti, è meglio che i partiti trovino velocemente una maggioranza politica che consenta di formare un nuovo governo che, nel pieno dei suoi poteri, predisponga la legge di Bilancio. Altrimenti, meglio tornare al voto.
Ma possiamo permetterci un’altra campagna elettorale?
Non vedo come una campagna elettorale possa portare impegni peggiori o cattive notizie in più rispetto all’ultima campagna elettorale. Anzi, magari potrebbe emergere qualche buona notizia, una sorta di ripensamento dell’elettorato nei confronti delle ultime promesse elettorali, che considero destabilizzanti.
Che cosa, allora, potrebbe ridare slancio alla nostra economia in rallentamento?
Non ci sono purtroppo scorciatoie. Le facili promesse sono una debolezza del messaggio politico dei partiti. Ridurre alcune voci di spesa implica fare poi spazio ad altre voci di spesa. In questo senso io interverrei per garantire un maggior aiuto economico ai lavoratori cinquantenni che perdono il lavoro a causa dei processi di innovazione. L’innovazione deve trovare ovviamente spazio, ne abbiamo bisogno, ma davanti alla prospettiva che si possano cancellare tanti posti di lavoro o che vengano tenuti in vita posti non più remunerativi, è giusto prevedere un sostegno attivo a chi perde il lavoro, piuttosto che promettere redditi, di cittadinanza o di dignità che siano.
La ricetta è una spending intelligente?
Spending review non significa solo fare dei tagli selvaggi per favorire il liberismo, ma vuol dire evitare spese improduttive, favorendo, per esempio, gli investimenti o prevedendo che i costi dell’innovazione non abbiano ricadute sociali troppo pesanti.
Resta comunque fondamentale il controllo della spesa pubblica…
Si può, per esempio, tagliare la spesa nelle partecipate per trovare risorse utili da destinare a ridurre il carico fiscale, intervenendo sulla terza aliquota, che rispetto alla seconda cresce con un balzo troppo ampio e che dunque potrebbe essere alleggerita, senza gli sconquassi che potremmo avere con una flat tax, in un Paese come l’Italia che ha ancora una spesa pubblica superiore al 50%.
Insomma, secondo lei, abbiamo il tempo necessario per intervenire prima che la Ue e i mercati perdano la pazienza?
L’Europa e i mercati, ovviamente, continuano a guardarci, ma siamo in un contesto di crescita della Ue e di fine del Quantitative easing della Bce che sarà graduale. Non stiamo attraversando un periodo così negativo. Certo, non possiamo sprecare questo momento con politiche poco responsabili o rischiose. Questa è davvero l’ultima cosa da fare.
(Marco Biscella)