Dopo la giornata di ieri in cui “la borsa scende perché non c’è il governo” vorremmo fare due premesse e una sintesi dei “problemi” in tre punti. La prima premessa è che non faremo gli eroi nell’avventurarci in previsioni di borsa legate a fasi politiche. Ci ha provato gente molto più brava di noi e ha fatto figure tremende dopo il referendum sulla Brexit, dopo l’elezione di Trump e dopo il referendum italiano. La seconda premessa è che in questa fase la lista dei possibili “pretesti” per far scendere i mercati è molto lunga: l’Iran, i dazi, i Paesi emergenti messi in crisi da petrolio e dollaro, i tassi americani che salgono, la Francia, l’Italia, ecc. Vorremmo solo fare una mini deviazione e dire che la previsione di Dimon consegnata agli schermi di Cnbc di tassi americani al 4% dell’altro ieri a noi è sembrato più che altro un grido di allarme e che anche dopo ieri la Borsa italiana rimaneva la migliore d’Europa nel 2018.
Passiamo ai punti. Il primo punto è questo: nessun Paese al mondo può dire che il suo debito sia sostenibile, indipendentemente dal suo livello, in un contesto di declino permanente. Nessun Paese al mondo può “difendere” il suo debito, indipendentemente dal suo livello, senza una banca centrale. Nessun Paese al mondo può far scendere il suo debito senza crescita.
Il secondo punto: tutti gli indicatori economici e di finanza pubblica italiani nel 2013 erano peggiori di quelli ante-austerity del 2010. Eppure nessuno si preoccupava del debito. Questo è accaduto perché la banca centrale italiana, che è la Bce, è intervenuta e perché in una prospettiva di crescita e non di austerity si può accarezzare l’idea di far scendere il debito. Il calo di borsa non si spiega con il debito pubblico e nemmeno, in quanto tale, con l’incertezza politica, ma si spiega, eventualmente, perché si può aprire una fase di “frizione” tra l’Italia e la sua banca centrale e perché all’Italia può essere inoculata una fase di declino via austerity a vantaggio del centro Europa, Francia e Germania in testa.
Il terzo punto è questo. Non è questo il momento in cui l’Italia può chiedere o può porre la questione, che per noi verrà posta comunque ma non ora e non dall’Italia, dell’euro. L’Italia è troppo ricattabile e non ha alleati che dovrebbe cercare forsennatamente. Per come si pone la questione, l’Italia ha come unica alternativa una “patrimoniale” dichiarata o mascherata. Nell’attuale contesto europeo le patrimoniali che paga, da anni, l’Italia contribuiscono a un flusso di capitali che si muove dalla periferia dell’Europa al suo centro dove c’è la crescita e dove la banca centrale stende il suo velo protettivo sempre e comunque. Ricordiamo che l’Italia è stato il terzo contribuente, con i soldi dello scudo fiscale, del primo salvataggio greco. Questo flusso di capitali serve per controbilanciare gli squilibri dell’unione che non avendo redistribuzione interna e non avendo cambi variabili ha solo due valvole di sfogo: l’emigrazione e la deflazione/declino della periferia.
L’Italia non può crescere nell’attuale contesto perché non può investire nulla e non può fare politiche anticicliche e quindi è obbligata al declino e, contemporaneamente, a pagare per il suo declino con delle patrimoniali per tenere in vita l’equilibrio europeo; chi parla di tagli come primo punto di svolta vaneggia come si è visto alle recenti elezioni. I tagli vanno benissimo sui fogli excel molto meno quando si tratta di tagliare in regioni con la disoccupazione giovanile al 40% e in cui i finti posti di lavoro, eventualmente tagliati nella situazione attuale, si trasformano in nuovi italiani sotto la soglia di povertà. Piuttosto diciamo che in certe regioni non c’è più il diritto di voto; certi conti sarebbero più credibili.
Piuttosto che farci fare la patrimoniale dall’Europa per mandare i soldi in Germania e in Francia e visto che oggi non abbiamo alternative potrebbe essere meglio farcela noi alle nostre condizioni e per i nostri interessi. Ponendo come unica condizione che serva per opere utili ed esclusivamente per la crescita italiana: fabbriche e infrastrutture. Potremmo prendere tutti in contropiede, finiremmo sui giornali come virtuosi e costruendo porti, treni e metropolitane e facendo concorrenza a Germania e Francia che stanno per tagliare le tasse investiremmo su noi stessi.
La patrimoniale facciamola noi per quello che ci interessa; altrimenti ce la fa l’Europa per finanziare i piani neocoloniali di francesi e tedeschi. Pagare più tasse per l’Italia rischia di essere ineludibile se l’Europa non cambia o non cambiano gli equilibri al suo interno; l’unica nostra opzione in questo caso è decidere come e per cosa pagarla. Se sbagliamo diventiamo una colonia, se non facciamo niente pure, se ci viene guadagniamo qualche posizione in una scala che oggi, politicamente, ci vede poco sopra la Grecia.