Strano mondo quello in cui viviamo. Prendete il G7 appena concluso in Canada, formalmente un appuntamento di capitale importanza, visto che al centro della discussione c’era la guerra commerciale in atto, soprattutto la politica di dazi sempre più aggressiva da parte degli Usa. L’epilogo è noto a tutti: nessun accordo, di fatto, visto che Donald Trump, dopo essere arrivato in ritardo e andato via prima per raggiungere Singapore, dove domani incontrerà Kim Jong-un, ha fatto buon viso a cattivo gioco finché con i piedi per terra, arrivando addirittura al paradosso di ipotizzare l’abbandono multilaterale e contemporaneo di ogni protezionismo, poi una volta a bordo dell’Air Force One ha cominciato un diluvio di tweet, attaccando il premier canadese Justin Trudeau e ritrattando la firma apposta sul documento finale. Il quale, senza l’ok di Washington, vale quanto la carta usata dal salumiere per confezionare il prosciutto.



Di principio, poi, vista la sua natura strettamente economico-commerciale, era lo stesso G7 a non contare nulla, poiché discutere di quei temi senza avere al tavolo due dei player principali a livello globale, Cina e Russia, equivale al proverbiale “fare i conti senza l’oste”. Cina e Russia che, tra l’altro e non certamente per caso, contemporaneamente al paradossale meeting canadese, vedevano i rispettivi leader incontrarsi per lanciare una silenziosa spartizione del mondo, alla faccia di chi crede che farsi amico un bipolare come Donald Trump sia un’assicurazione sulla vita. Parliamoci chiaro, avere buoni rapporti con Washington, oggi come oggi, è sicuro quanto infilarsi un cobra nelle mutande. Oltreoceano hanno bisogno di caos e propaganda, è tutto ciò che serve per cercare di gestire al meglio – o, quantomeno, alla meno peggio – l’ormai non più rinviabile appuntamento con il redde rationem rispetto al disastro posta in essere negli ultimi anni dalle Banche centrali.



E questa settimana, casualmente, non sarà solo il meeting fra Usa e Corea del Nord ad agire da evento spartiacque, ma anche le riunioni dei board e dei comitati monetari di Fed, Bce e Bank of Japan. Siamo nel pieno della recita a soggetto. Prendete, per restare nel nostro piccolo, l’esordio di Giuseppe Conte come premier italiano al tavolo dei Grandi. Uno da un oscuro – inteso come finora misconosciuto ai più, nessuna connotazione negativa – professore di diritto privato non si attende un trilinguismo degno di un rango diplomatico e una capacità di gestione di determinate agende quasi da attore consolidato: Conte sembrava tutto, tranne che un novizio della politica. E non parliamo di politica a livello di consiglio di zona, parliamo del G7. Oltretutto, in uno dei momenti più politicamente ed economicamente più confusi e delicati dal Secondo Dopoguerra. Forse, il più confuso e delicato in assoluto. Eppure, fra un baciamano eseguito in punta di galateo e la benedizione pressoché immediata di Donald Trump al rango di “ragazzo in gamba”, valsagli l’immediato invito alla Casa Bianca per un bilaterale, ecco che il nostro professore ci ha fornito quella che, a mio modo di vedere, è l’unica e vera notizia scaturita dal simposio canadese: la rivendicazione della propria indipendenza d’azione dai partiti che reggono la maggioranza di governo. Leggi, Salvini e Di Maio.



Parliamoci chiaro: le decisioni importanti in tema di commercio, non le si prende certamente nel corso di riunioni ufficiali e aperte come il G7. O si punta sull’unilateralità della forza come ha fatto finora Donald Trump o ci si affida agli sherpa che operano nel buio di meeting riservati e arrivano ai compromessi dopo mediazioni drammatiche e di ore: solo a quel punto emerge l’ufficialità. Quello appena concluso, più che un G7 sembrava il Muppet Show. O il remake de Una pallottola spuntata. Per tutto, tranne che per i messaggi inviati da Giuseppe Conte. E dal suo governo, sia Paolo Savona che sabato dalla conferenza internazionale Cooperation Project 2 rivendicava che «i due pilastri dell’Ue sono il mercato comune e l’euro, l’uno implica l’altro» che ieri il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, il quale in un’intervista al Corriere della Sera ribadiva come all’interno del governo «non vi sia alcuna discussione in proposito all’uscita dall’euro, una posizione netta e condivisa». Di più, il titolare del ministero chiave di via XX Settembre sottolineava come fosse chiara intenzione dell’esecutivo quella di perseguire una politica di abbassamento del debito, parlando di riforme che rispettino il bilancio. Insomma, dal ministro più discusso e pomo della discordia fra forze di governo e Quirinale e dal ministero più sensibile, giungevano professioni chiare di responsabilità sui conti ed europeismo.

Di Maio e Salvini sono d’accordo? Ma, soprattutto, lo sono i pasdaran economici del Carroccio, quei Bagnai, Siri e Borghi che sembrano più apprendisti stregoni con i soldi pubblici che seri funzionari dello Stato? Non a caso, sempre a margine delle discussioni sul G7, ecco che La Stampa di Torino rilanciava in prima pagina la notizia di una prima, netta spaccatura e divisione fra Lega e M5S. Proprio sui conti, con la prima intenzionata a fare ricorso alla leva del deficit e i secondi, udite udite, in veste di pompieri della credibilità del Paese, pronti all’altolà verso l’alleato un po’ troppo facilone su promesse e relative (e finora, assenti) coperture di spesa. Il tutto, tanto per dare un quadro generale dell’intreccio – strano, molto strano – di coincidenze, nel giorno del primo test elettorale per il governo gialloverde, le amministrative per il cui buon esito Matteo Salvini si è speso molto, abbandonando più volte le Aule nel corso del dibattito sulla fiducia per tenere comizi elettorali e poi rilanciare decine di tweet, atteggiamento ben poco consono a un ruolo delicato e necessitante riservatezza massima come quello ministro dell’Interno. Guarda caso, poi, sono proseguiti gli sbarchi, gli ultimi dei quali, di fatto “autorizzati” dal Viminale a guida leghista. Lo stesso che pare non capire la portata della mossa posta in essere dal governo austriaco, il quale ha chiuso diverse moschee ed espulso decine di imam radicali, facendo immediatamente esplodere la rabbia dell’azionista di maggioranza di quei luoghi di culto, la Turchia, il cui leader Erdogan ieri non a caso delirava di nuovo scontro fra Islam e crociati. Il leader leghista e titolare del Viminale, ovviamente, ha plaudito alla mossa di Vienna, non capendone le conseguenze pratiche.

Primo, Erdogan ha ancora formalmente il coltello dalla parte del manico, visto che è lui a garantire lo stop delle partenze, soprattutto di siriani, grazie all’accordo miliardario in sede Ue. E se finora si è limitato a stracciare l’accordo di ricollocamento con la Grecia, l’arma di ricatto dell’apertura delle porte a chi vuole partire è sempre una pistola carica sul tavolo: non a caso, la stessa Austria ha visto la settimana scorsa poliziotti tedeschi raggiungere il Brennero per un’operazione congiunta di rafforzamento del controllo della frontiera proprio con l’Italia. Insomma, se la mossa di Vienna porterà a una rottura con Ankara, a pagare il prezzo sarà l’Italia, non certo la blindatissima rotta balcanica. E parlo della stessa Italia che non più tardi di cinque giorni fa, proprio con il ministro Salvini, festeggiava il fallimento in sede Ue della riforma del Trattato di Dublino. Non a caso, bocciata anche per il veto tedesco.

Dunque, il premier apparso dal nulla, un po’ come il Macron passato dal ruolo ministeriale all’Eliseo, si mostra come un politico navigato, preparato e internazionalmente stimato al suo primo G7, di fatto senza nessuna apparente esperienza politica precedente: voi ci credete? O forse quel suo essere perfettamente poliglotta e a suo agio in contesti come il G7 è frutto di una preparazione di mesi, in attesa di un qualcosa che doveva sembrare, invece, all’opinione pubblica, il più classico dei conigli dal cilindro, oltretutto con la perfetta recita quirinalizia a testimoniarne l’eccezionalità? Casualmente, infatti, è bastato un intervento filo-Ue e filo-euro di Paolo Savona per portare l’Unione europea a una nuova apertura di credito verso l’Italia, dopo le minacce dei vari falchi del Nord, con promessa di nuova flessibilità se si perseguirà la strada dell’abbassamento del debito: casualmente, alla richiesta è giunta a tempo di record la risposta attraverso l’intervista di ieri al Corriere di Giovanni Tria.

Sicuri che l’operazione Conte sia figlia del suo impegno da accademico con passione civile con i 5 Stelle? E se così fosse, su mandato di chi si è consumato l’avvicinamento fra grillini e professore di diritto privato? Le cose non sono quasi mai come sembrano. In questo caso, non lo sono affatto. E temo per Matteo Salvini e per i suoi profeti del sovranismo e della moneta parallela, con piani deliranti di utilizzo delle risorse pubbliche, che il risveglio dal sogno di governo e “cambiamento” sarà molto brusco. Gli hanno creato attorno un Truman Show perfetto. E lui è parso credere alla recita, oltretutto ritenendosi anche il vincitore senza concorrenti della partita. Vediamo, però, quanto ci vorrà per arrivare alla prova dei fatti, in punta di rivendicazione dell’indipendenza dai partiti che reggono il governo del premier, professione di responsabilità dei ministri più “attenzionati” e altolà dei 5 Stelle sull’avventurismo da deficit. E, soprattutto, in punta dell’elemento ancora più inquietante, almeno per la Lega in continua ascesa nei consensi: il silenzio tombale di Silvio Berlusconi. Un qualcosa che, a livello di politica interna, parla ancora più di mille parole.