Al di là delle narrazioni da manuale dei mercati finanziari, quando una società decide di quotarsi in Borsa il fine prevalente è risolvere problemi e superare incertezze. Per esempio: nel 1996 Fininvest quotò le sue attività televisive raggruppate nella nuova Mediaset per ridurre e stabilizzare i suoi debiti, soprattutto dopo che il Credito italiano aveva revocato parte dei crediti su input di Mediobanca (questo – assieme al pressing crescente della magistratura – era stato del resto motivo forte della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi nel 1994). Quali sono le motivazioni reali che stanno spingendo Il Fatto Quotidiano a quotarsi all’Aim? E perché l’annuncio giunge ora, pochi giorni dopo lo sbarco di M5s nell’apparente terra promessa di Palazzo Chigi?
Ancora una volta spunti personali e finanziari sembrano mescolarsi a momenti di natura più politica, tutto dietro le dichiarazioni di rito dell’Ad Cinzia Monteverdi (necessità di raccogliere nuove risorse per sviluppare una strategia diversificata nel multimediale digitale, etc). Anzitutto: nell’ultimo bilancio dell’editoriale – di cui l’Ansa ha dato alcuni estremi – il 25,6% del capitale è detenuto dalla società stessa sotto forma di azioni proprie. E’ noto che l’azionariato della capogruppo di Marco Travaglio ha registrato nel tempo alcuni abbandoni (come il magistrato torinese Bruno Tinti, fra i fondatori).
Ora il lascito di quelle liquidazioni va evidentemente smaltito, per alleggerire il bilancio e ripristinare risorse disponibili per lo sviluppo: e la Borsa appare una via maestra quasi obbligata. Certamente l’approdo al listino di Piazza Affari riservato alle piccole e medie imprese potrebbe consentire anche ad altri soci di monetizzare i loro investimenti dopo una decina d’anni di start-upping editoriale di successo: ad esempio l’ex direttore Antonio Padellaro. Per di più il consuntivo 2017 segnala – oltre a un utile di 618mila euro – l’autorizzazione a distribuire un dividendo superiore (2 milioni, per quanto Monteverdi e Travaglio preleveranno solo la metà di quanto loro spettante). E’ una mossa del tutto fisiologica nei “cambi di stagione” di una società: quando la proprietà – o almeno una parte di essa – decide di ritirarsi e di realizzare i risultati di una fase di crescita. E’ quasi implicito – peraltro – che vi saranno nuovi investitori soci (anzitutto il mercato diffuso) e reggere sulle proprie spalle una nuova epoca.
Non sorprende, comunque, che al Fatto Quotidiano registrino per primi e con tempestività il brusco cambio di scenario determinato dal voto del 4 marzo e dalla nascita del governo giallo-verde. Nulla sarà più come prima, anzi: il pieno di voti incassato da M5s potrebbe essere un picco, almeno nel periodo breve-medio. E il suo passaggio da un’area antagonista a una maggioranza di governo (per di più in partnership con la Lega) potrebbe creare effetti imprevedibili. Già il voto amministrativo ha segnalato qualche flessione, coincidente con la partenza lanciata del leader leghista Matteo Salvini nel dirigere le operazioni del governo Conte. “Vendi, incassa e pentiti”, recita un antico adagio di Piazza Affari. Chissà, i soci del Fatto non stanno solo provando a rivendere – legittimamente – al miglior prezzo in Borsa un pezzo del loro giornale.
Forse temono anche ribassi di quotazione politica del movimento la cui crescita finora irresistibile si è intrecciata con quella del Fatto. Forse, oltre a una quota del Fatto, provano a “vendere sui massimi” M5s. E’ curioso che, negli stessi giorni, l’acerrimo nemico-bersaglio di Travaglio – il Cavaliere – sia alle prese con problemi in parte analoghi. come mettere in salvo Mediaset (ancora sotto assedio in Borsa da Vivendi) e come estrarre gli ultimi dividendi dall’investimento politico in Forza Italia, duramente punito al listino elettorale.