“Dopo un’attenta valutazione dei progressi fatti” il direttivo della Bce ha deciso all’unanimità di procedere prima alla riduzione, poi all’azzeramento degli acquisti di titoli sul mercato. Ma questa soluzione non significa automaticamente la fine del Qe o tantomeno della stagione del denaro a basso costo. E’ il risultato della riunione di ieri a Riga in cui il direttorio ha deciso che:



1) da settembre a dicembre, l’ammontare degli acquisti scenderà dagli attuali 30 a 15 miliardi di euro al mese per poi scendere a zero con il nuovo anno;

2) allo stesso tempo la Bce continuerà a reinvestire il capitale dei bond acquistati che giungono a scadenza “a lungo dopo la fine degli acquisti netti, e in ogni caso per tutto il tempo necessario per mantenere condizioni di liquidità favorevoli e un ampio grado di accomodamento monetario”.



A conferma della volontà di garantire un atterraggio morbido degli stimoli monetari, comunque ancora necessari, la Bce ha ribadito, infatti, che “i tassi chiave resteranno agli attuali livelli almeno lungo tutta l’estate 2019 e in ogni caso tutto il tempo necessario per assicurare che lo sviluppo dell’inflazione resti allineato con le attuali aspettative di un sostanziale percorso di aggiustamento”.

Insomma, una “stretta soft”, ovvero – per dirla con Carsten Brzesky di Ing – “un compromesso salomonico tra le pressioni dei falchi, premiati dalla chiusura del Qe, e le esigenze delle colombe”, premiate dalle garanzie sul costo del denaro. Il tasso principale resta, perciò, fermo allo 0%, quello sui prestiti marginali allo 0,25% e quello sui depositi a -0,40%. E nulla lascia prevedere, almeno per ora, che nella seconda metà del 2019 si debba per forza procedere a un aumento. Anzi, Mario Draghi non ha chiuso la porta a un’eventuale ripresa del Qe nel caso la situazione lo richieda.



Non è un’esigenza immediata, anche se l’incertezza dell’economia è “senza dubbio” aumentata, sottolinea il banchiere italiano, e in alcuni Paesi la fase di debolezza mostrata dagli ultimi dati “potrebbe protrarsi nel secondo trimestre”, come dimostra il rallentamento della crescita al 2,1% dal 2,4% precedente.

In sintesi, Mario Draghi ha saputo trovare ancora una volta un compromesso tra le varie anime dell’Europa monetaria. E i mercati, al solito, hanno apprezzato il realismo del banchiere: rallenta l’euro sotto 1,17 sul dollaro, com’era scontato, vista la tendenza al rialzo dei tassi ribadita dalla Fed (conseguenza tutt’altro che disprezzata dall’Europa), ma le Borse hanno imboccato la via del rialzo dopo una mattinata incerta.

Ma la decisione di ieri ha comunque un sapore storico: si avvia a conclusione un piano di acquisti che ha immesso sui mercati 2.400 miliardi di euro in sei anni, che hanno avuto una funzione decisiva per la ripresa dell’economia europea. E di quella italiana in particolare, visto che la Bce ha acquistato tramite le Banche centrali nazionali quasi 345 miliardi di titoli italiani, arrivando a detenere il 16% circa del nostro debito. Se l’Italia, nel 2014, pagava il 4,6% del Pil in interessi sul debito, quest’anno – stima il Def – si fermerà al 3,5%. E buona parte della pur modesta crescita nostrana è legata agli effetti del credito reso possibile dalla strategia di Draghi.

Forte di questi numeri, Draghi ha gettato acqua sul fuoco sulla situazione italiana, sostenendo che la volatilità che sta caratterizzando i mercati da quasi un mese rappresenta sì un rischio, ma è già in parte rientrata rispetto a due settimane fa, all’apice della turbolenza scaturita dalla formazione del nuovo governo. Non c’è stato un rischio contagio sugli altri mercati, ha aggiunto il banchiere, così non c’è stato alcun complotto contro il nuovo esecutivo. “Non dobbiamo drammatizzare in modo eccessivo i cambiamenti nelle politiche dei governi” ha concluso Draghi, aggiungendo però che è importante che “le differenze siano discusse nell’ambito dei trattati”.