In Italia è aperta una questione salariale della quale la politica non parla e che anche i sindacati hanno lasciato nel dimenticatoio. L’Istat ha fotografato una grande sperequazione tra le retribuzioni percepite nel nord e nel sud, tra i 29mila euro medi mensili di Milano e i 12mila di Vibo Valentia. Per non parlare dello squilibrio tra donne e uomini che attraversa l’intero paese. Tutte ingiustizie da sanare, non c’è dubbio. Luigi Di Maio tra le prime iniziative come ministro del Lavoro, si è rivolto ai giovani fattorini, promettendo tutele e garanzie. Certo, anche questa è una contraddizione da affrontare, anche se si tratta di una quota minima e tutto sommato marginale del mercato del lavoro. Oltre tutto, la loro resta un’occupazione transitoria: renderla permanente con soluzioni contrattuali rigide rischia di diventare un boomerang. La gig economy è una cosa seria, non solo una moda. Tuttavia, oggi tre quarti dei lavoratori italiani hanno un’occupazione dipendente per lo più di tipo tradizionale. E il problema principale, un problema che si sta facendo gigantesco, sono proprio loro.
Salari e stipendi sono troppo bassi e, quel che è ancor peggio, sono rimasti praticamente fermi almeno da un decennio. Secondo i dati Istat, la paga media lorda di un dipendente a tempo pieno, calcolata a prezzi del 2015, è ancora oggi sostanzialmente uguale a quella di dieci anni fa, cioè poco meno di 2.500 euro mensili. E’ colpa della lunga recessione, certamente, ma non solo. L’Eurostat ha calcolato che fatta 100 la retribuzione reale media di un dipendente a tempo pieno italiano nel 1995, nel 2006 l’indice aveva raggiunto il valore di 101,5, anche se nel frattempo il reddito lordo prodotto dall’economia era passato da 100 a 118,3. Dunque, il salario non seguiva la dinamica del prodotto nemmeno quando la crisi non era all’orizzonte. La ripresa, per quanto ancora debole, non ha invertito la tendenza, al contrario di quel che è accaduto in altri paesi europei e negli Stati Uniti.
Come mai? Bisogna dire che la “moderazione” è stata una scelta consapevole: bisognava stroncare l’inflazione, per questo nel 1993 venne firmato l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil, la Confindustria e il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, con il quale le retribuzioni annue potevano crescere solo in linea con l’inflazione, non quella effettiva bensì l’aumento programmato dal governo. Eventuali discrepanze dovevano essere compensate con i contratti di lavoro dei due anni successivi. Ma legare il salario all’inflazione anziché alla produttività è stato un errore che ha fatto del male sia ai salari sia alla produttività stessa.
Paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dove prevale il modello contrattuale decentrato, su base aziendale, sono quelli in cui i salari sono aumentati di più. La Germania ha cambiato le relazioni industriali, un tempo centralizzate, e questo ha contribuito in modo determinante alla sua migliore performance economica: ha reagito meglio alla recessione che è durata meno rispetto agli altri paesi soprattutto grazie alla flessibilità retributiva, come dimostra uno studio di tre economisti tedeschi: Christian Dustmann, Bernd Fitzenberger, Uta Schönberg e Alexandra Spitz-Oener.
L’Italia deve recuperare, dunque, nello stesso tempo produttività e retribuzioni per aumentare l’efficienza e sostenere una domanda interna rimasta sostanzialmente schiacciata. Più profitti con bassi salari non rafforzano la crescita e nello stesso tempo peggiorano le condizioni sociali. Viene anche a mancare quella “frusta salariale” come la chiamano gli economisti, che spinge gli imprenditori a investire e innovare. E’ questo il dilemma della politica economica altrettanto importante del riequilibrio delle finanze pubbliche. Il dibattito politico (e lo ripetiamo anche quello sindacale) lo ignora.
Ma che cosa si può fare? Occorre liberare spazio per una ripresa della contrattazione nelle imprese e nel territorio. Un passaggio importante è il cuneo fiscale, scomparso anch’esso dall’agenda governativa. Il costo del lavoro in Italia è 46mila euro per ogni singolo addetto, imposte e contributi sociali si mangiano in media il 47,7 per cento, una percentuale che colloca l’Italia al terzo posto assoluto dopo Belgio e Germania, con 12 punti oltre la media dell’Ocse. La flat tax non risolve il problema perché gran parte delle retribuzioni si colloca su una fascia di reddito inferiore a quella che dovrebbe ricevere un beneficio dal taglio delle aliquote proposto dalla Lega. Dunque, bisogna discutere se le scarse risorse pubbliche vanno impiegate in un modo o nell’altro. Quanto al salario minimo, il problema oggi è quello medio, come abbiamo visto.
Tuttavia ridurre la forbice tra salario lordo e netto non è sufficiente se nello stesso tempo non si rivede il modello contrattuale. Molto si è detto in questi anni e qualcosa è stato fatto, ma oggi assistiamo al paradosso di una proliferazione dei contratti “pirata” come il chiama Tiziano Treu (sugli 800 esistenti solo 300 sono ufficiali) e nello stesso tempo una rigidità che schiaccia in basso le retribuzioni. Anche gli accordi aziendali sono per lo più integrativi, restano all’interno della gabbia nazionale e nell’insieme coprono una minoranza di lavoratori.
Un aumento generalizzato della paga base può diventare nello stesso tempo controproducente, per il suo impatto macronomico, e insufficiente, soprattutto non premia i lavoratori migliori. La Banca d’Italia, in un paper pubblicato nel dicembre scorso, conclude che “Un maggior ruolo della contrattazione decentrata nella definizione dei salari e dell’organizzazione del lavoro consentirebbe di favorire un miglior allineamento tra la crescita dei salari e quella della produttività e di allentare alcune rigidità della contrattazione nazionale”. E’ un tema che spetta ai sindacati, ma anche al governo. Gli incentivi alla contrattazione di secondo livello introdotti nella scorsa legislatura hanno avuto un qualche effetto, però non hanno cambiato il modello.
Un sindacalismo frantumato e gregario come quello attuale preferisce cercare scorciatoie, affidarsi a nuove leggi o a provvedimenti assistenziali come il reddito di cittadinanza (anche se non è davvero di cittadinanza). Si tratta di false ricette per una malattia vera che contribuisce a collocare l’Italia in una posizione di debolezza strutturale.