Ha ragione Paolo Savona quando scrive che in Italia la cultura dello sviluppo che ha caratterizzato e animato gli anni del Dopoguerra, quando i nostri nonni e genitori hanno rimesso in piedi un Paese caduto in pezzi, si è strada facendo trasformata in cultura della garanzia (“Come un incubo e come un sogno”, Rubbettino) con una serie di implicazioni con le quali ci troviamo oggi a fare i conti.



Scambiando dosi sempre maggiori di libertà con dosi sempre maggiori di sicurezza, abbiamo mutato il Dna degli italiani e di quella particolare razza di cittadini che sono gli imprenditori. Nel Mezzogiorno, in particolare, la politica e il settore pubblico hanno preso sempre più spazio finendo con il determinare anche la buona o la cattiva sorte dell’economia e dei suoi sacerdoti.



Non a caso la preferenza per la rendita ha preso il sopravvento sulla rincorsa al premio legittimamente dovuto a chi affronta il campo aperto della produzione e della competizione. Piuttosto che accettare le incertezze del mercato, e fare i conti con le sue numerose insidie, si è preferito cercare rifugio in porti sicuri dove prosperare a dispetto di chi ne è rimasto fuori.

Una delle principali conseguenze di questo stato di cose è la perdita di anticorpi utili a fronteggiare la crisi con l’animo coraggioso di chi non si scoraggia per le difficoltà presenti in un contesto nuovo, mai conosciuto prima, con regole e condizioni capaci di modificare profondamente l’intero funzionamento della società. Quello che si dice un cambiamento epocale.



Si spiega anche così il disorientamento di intere generazioni di giovani e meno giovani che chiedono con sempre maggiore forza di essere rassicurati dallo Stato. Uno Stato che già controlla oltre metà della spesa, in forme che si possono certamente definire ingombranti, e che potrebbe così aumentare la sua capacità di spiazzamento dell’attività privata.

Riforma delle pensioni in termini più benevoli per gli assistiti, redditi certi e ad ampia diffusione (d’inclusione, di cittadinanza, di dignità…), assunzioni di massa nei ranghi delle pubbliche amministrazioni sono l’espressione evidente di questa deriva protezionistica che nasce dall’acuirsi delle diseguaglianze e l’avanzare della povertà come portato della globalizzazione.

Gran parte delle misure immaginate dai nuovi governanti risponde alla domanda di maggiore benessere che sale prepotente dal basso. Il voto delle ultime elezioni politiche è stato chiaro: basta promesse fumose, basta sforzi e sacrifici (se ne sono fatti già abbastanza), basta collocare nel futuro la soluzione ai problemi. La risposta deve arrivare subito.

Ma perché questo possa accadere davvero, perché ci siano realmente le risorse da distribuire, perché non si debba aprire (e poi chiudere) un nuovo libro dei sogni, è necessario spingere più che mai sul pedale della crescita, portando a compimento la trasformazione industriale del Paese e consentendo al grande corpo delle imprese italiane di rinforzarsi a dovere.

Solo così potremo recuperare senso della sfida e fiducia nel domani. Solo così potremo creare lavoro vero e assorbire la tanta disoccupazione che affligge soprattutto i giovani. Solo così potremo innalzare il Pil, mettendo al sicuro un debito che sarebbe imprudente far salire. E solo così sarà possibile finanche mantener fede agli obblighi del voto.