La spesa pubblica è una dimensione perennemente problematica. Che lo Stato spenda troppo e spenda male è tuttavia un luogo comune, certamente vero in piccola parte, ma sostanzialmente falso, tenendo conto degli impegni che gli stessi cittadini chiedono allo Stato su fronti importanti, come quelli della sanità, dell’istruzione, della previdenza, della sicurezza interna e internazionale.
Al di là dei dibattiti sulla possibilità o meno di far crescere la spesa ampliando i deficit di bilancio, resta il fatto che i cambiamenti dello scenario politico e sociale impongono, o meglio imporrebbero, una revisione continua dell’allocazione delle risorse.
Per esempio, i trend demografici, con l’ormai evidente diminuzione delle nascite accompagnato da un aumento significativo della speranza di vita, richiederebbero quello che solo in parte avviene: una revisione dei parametri della spesa previdenziale, con un rialzo dell’età di pensionamento, una politica di sostegno all’infanzia, con interventi diretti e indiretti di aiuto alla maternità, una politica fiscale e del lavoro capace veramente di sostenere la formazione delle nuove famiglie. La diminuzione delle nascite è infatti un aspetto di un problema che parte dal fatto non solo che diminuiscono i matrimoni, ma che ci si sposa sempre più tardi e che continua a salire (ha ormai superato i trent’anni) l’età in cui in media una donna ha il primo figlio.
La spesa pubblica, non solo in Italia, si muove in gran parte lungo binari obbligati, impegni di lungo periodo, garanzie legate al rispetto dei diritti acquisiti.
Tra i capitoli sotto molti aspetti più importanti anche quello della spesa militare merita una riflessione particolare. Per tanti aspetti. Non solo quello delle compatibilità finanziarie, pur importante in un periodo di risorse scarse, ma anche quelli legati alle valutazioni etiche e politiche, valutazioni molto più complesse di quanto appaia a prima vista.
Un’analisi a 360 gradi delle implicazioni della spesa militare è quella compiuta da Raul Caruso nel libro “Chiamata alle armi – I veri costi della spesa militare in Italia” (Edizioni Egea, pagine 108, 16 euro), un libro in cui si prendono in esame i vari aspetti con una particolare analisi del caso di una delle maggiori aziende italiane, la Leonardo, nuovo nome di Finmeccanica, un’azienda quotata in Borsa, ma di fatto controllata dallo Stato.
Le considerazioni di Caruso sono abbastanza drastiche nel ritenere la spesa militare in parte inutile e per l’altra parte pericolosa, ma proprio questa impostazione, forte e documentata, appare particolarmente utile per approfondire un tema che non può essere lasciato solo agli esperti e ai diretti interessati. In fondo, resta vero quello che diceva George Clemenceau: “la guerra è troppo importante per essere lasciata ai generali”.
I tre aspetti che Caruso sottolinea nelle sue conclusioni sono: “1) le spese militari non favoriscono lo sviluppo economico, ma al contrario lo depotenziano, in particolare per il freno che pongono all’accumulazione di capitale umano, all’innovazione e alla crescita di produttività; 2) una democrazia rischia di perdere credibilità, qualità e quindi forza nel momento in cui vìola, anche se indirettamente, i diritti umani e l’impegno per la pace: questo può avvenire quando un impegno militare si traduca in una condotta di guerra non appropriata, oppure quando imprese di proprietà pubblica cedano armamenti a paesi le cui leadership violano i diritti umani o che sono coinvolti in conflitti al di fuori del diritto internazionale; 3) una maggiore spesa militare conduce inevitabilmente a una maggior insicurezza e instabilità: l’aumento delle spese militari di un paese determinerà, infatti, una reazione nei suoi rivali”.
Quello di Caruso non è un pacifismo ideologico, che pur ha motivazioni etiche rilevanti, ma è frutto di una visione che pone in primo piano anche i temi dello sviluppo economico e sociale, delle ricadute della ricerca e dell’innovazione, delle politiche che qualche anno fa erano state chiamate di ingerenza umanitaria. Di spesa militare, quindi, si può e si deve discutere. Meglio se lo si fa sulla base di analisi concrete e proposte chiare. Come quelle di questo libro.