Vi ricordate The Post? Sì, il film di quest’inverno: l’editrice “liberal” Meryl Streep e il suo direttore Tom Hanks che ri-recitano volentieri la leggendaria vittoria del quotidiano della capitale Usa contro il cattivissimo Richard Nixon che voleva nascondere la verità sul Vietnam. Due candidature ultra-political correct all’Oscar e nei titoli di coda, un raccomandazione didascalica: la puntata successiva è il Watergate, andate a ripassarvi il dvd con Hoffmann-Bernstein e Redford-Woodward. 



Formidabili quegli anni 60: “democratici” da una parte e capitalisti-imperialisti-etc dall’altra. I primi vincevano anche quando perdevano perché era giusto così: avevano sempre in tasca Jfk e Mlk, i giornali di New York e  Washington, Hollywood e le grandi università. Gli altri esibivano sempre e solo i ceffi dell’Fbi e della Cia, di MacCarthy, degli Stranamore nucleari e degli squali di Wall Street.



Anche cinquant’anni dopo campus, media e studios stanno coi cosiddetti “buoni”: soprattutto quando a Barack Obama è subentrato Donald Trump, un cattivo più cattivo ancora di Nixon. E The Post – come il New York Times e tutti gli altri – lavorano ogni giorno da un anno e mezzo, “a prescindere”, perché il nuovo presidente faccia la fine di Nixon. Questo però non ha impedito a Trump di inviare ieri alla redazione del Post un singolare tweet di solidarietà sindacale. Solidarietà ai giornalisti “in lotta”, anzi “in marcia” si sarebbe detto negli Usa anni 60.



“Jeff Bezos vi paga poco”, concorda e denuncia il presidente-tycoon. “Un lungo sciopero sarebbe un’ottima idea”, incita il businessman di Manhattan, incurante del fatto che lo sciopero in America sia considerato poco meno che un’antidiluviana eresia europea. Ma l’occasione per Trump era troppo ghiotta. 

L’editore del Post oggi non è più Kathy Graham, l’ereditiera progressista degli anni Settanta, ma Mister Amazon. Che ha salvato il giornale al prezzo da amatore di 400 milioni di dollari, ma considera i suoi giornalisti dipendenti non diversi da quelli dei suoi magazzini in giro per il mondo. E pazienza se il campione globale dell’e-commerce “accessibile” abbia votato Hillary Clinton e abbia sostituito Fred Zuckerberg come candidato presidenziale “di sogno” dei “liberal-limousine” americani tramortiti dal trumpismo.

Non che i dipendenti del Post – in una lettera aperta con oltre 400 firme fra giornalisti e altri addetti – non si sian detti “grati” a Bezos di essere intervenuto per evitare un “collasso”. E di aver impresso al Post una vera svolta digitale, raddoppiando gli abbonamenti online nel solo 2017. Quello che non accettano sono le condizioni secondo loro “inique” che Bezos vorrebbe ora introdurre: come un ritocco medio agli stipendi limitato alla metà dell’inflazione e – soprattutto – nessun miglioramento ai piani pensionistici. Per non parlare anche di una rivendicazione sempre meno celata da parte del patron di Amazon: un diritto sostanziale a licenziare. 

Il discorso economico-contrattuale diventa infine apertamente politico quando i giornalisti riaffermano con solennità che il Post “non è solo un’azienda commerciale”. E’ evidentemente un baluardo “a prescindere” della democrazia americana. Soprattutto ora che la democrazia americana va corretta dall’errore imperdonabile compiuto nelle libere elezioni 2016: tenute, come da secoli, il primo martedì di novembre con la partecipazione di 127 milioni di cittadini. Ma come fa Bezos a non capire da che parte stare (e chi pagare)? 

Nel frattempo, Trump se la ride, smanettando sui social inventati nella Silicon Valley obamian-clintoniana. Mentre il Washington Post e i suoi cugini faticano a convincere gli americani che il Russiagate è davvero grave come il Watergate e assai più grave del Facebook-gate.