Alla fine di questa settimana sapremo quale decisione l’Opec avrà preso sulla produzione giornaliera di petrolio. La questione, come sempre, trascende di molto il campo di analisi degli “addetti ai lavori”; basti pensare che i rialzi degli ultimi mesi, sommati al rafforzamento del dollaro, sono indicati come principali colpevoli delle grandi difficoltà di alcuni Paesi emergenti, a cominciare dal Brasile. Negli ultimi dodici mesi lo scenario è cambiato profondamente con i prezzi del petrolio saliti di quasi il 50% a circa 74 dollari al barile; è l’effetto dei tagli alla produzione con cui i Paesi Opec hanno reagito al crollo dei prezzi partito nell’estate del 2014 con le quotazioni scese da più di 100 dollari al barile a meno di 30, in meno di un anno e mezzo.
Una fase così lunga di prezzi depressi ha colto alla sprovvista anche un’industria abituata ad avere a che fare con lunghe fasi cicliche di rialzi e ribassi. In questi quattro anni gli investimenti in nuove scoperte si sono più che dimezzati e da più parti si segnala una certa preoccupazione per la ritrosia delle società petrolifere a investire.
La questione che aleggia nel settore è quanto fragile sia oggi l’equilibrio tra domanda e offerta dopo quattro/cinque anni senza investimenti. La preoccupazione è che si possa passare, complici le tensioni geopolitiche, a una fase di prezzi troppo alti con le inevitabili conseguenze sull’economia globale. Nonostante prezzi in forte risalita le major mostrano ancora tantissima prudenza a ritornare a spendere in nuove scoperte e nello sviluppo di nuovi campi.
La questione economica si intreccia in modo inseparabile con la politica, con gli incontri “ai massimi livelli” tra i primi tre produttori globali di idrocarburi: Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita. Trump ha “tweettato” contro l’Opec, reo di volere prezzi troppo alti negli stessi giorni in cui chiede più sanzioni contro l’Iran e dopo aver giocato un ruolo decisivo in tutti gli ultimi sviluppi in Medio Oriente; la Russia pare sia favorevole a un aumento robusto e anche l’Arabia Saudita vorrebbe aumentare la produzione (anche se in misura più contenuta).
Si sta consolidando l’opinione che i massimi del prezzo del petrolio visti negli ultimi giorni, insieme ai rialzi dei tassi della Fed e al rafforzamento del dollaro, siano una minaccia seria per la crescita globale. Capire dall’esterno quanto sia fragile oggi l’equilibrio tra domanda e offerta è molto difficile, soprattutto perché qualsiasi analisi tocca sia rapporti tra potenze globali sia le tensioni in Medio Oriente; molto si capirà dopo la decisione dell’Opec di questa settimana, soprattutto se un robusto aumento della produzione non riuscisse a “sgonfiare” o a stabilizzare il prezzo del petrolio. Potrebbe essere l’occasione per una ripartenza degli investimenti in grande stile, che coinvolgerebbe anche quelli sulle rinnovabili. Se il prezzo rimanesse troppo alto, aumenterebbe ulteriormente la pressione sulla Fed per fermare una salita del dollaro che si sta traducendo in problemi infiniti per le economie emergenti e che di certo non rende felici nemmeno famiglie e consumatori delle economie sviluppate.
Per un Paese come l’Italia si conferma prioritario e strategico mantenere l’autonomia e un presidio in un settore vitale, l’approvvigionamento di petrolio e gas, con le partecipate statali. L’Italia può solo assistere a queste dinamiche globali senza poter intervenire, non avendo né petrolio, né gas, né energia nucleare. Assicurarsi rifornimenti sicuri a medio-lungo termine per il proprio sviluppo economico indipendentemente dalle tensioni geopolitiche e dalle dinamiche globali che influenzano il prezzo del petrolio continua a essere un obiettivo strategico fondamentale.