Quanto pagherà l’Italia per l’aumento dello spread? È prematuro fare delle stime ora in quanto non sappiamo su quale livello esso tenderà a stabilizzarsi e quando potrà farlo. Ma qualche calcolo è invece opportuno farlo riguardo agli effetti della precedente crisi del debito sovrano italiano, che ebbe inizio a cavallo tra giugno e luglio del 2011 e si protrasse sino a quando il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi annunciò, il 26 luglio 2012, la nuova politica del “whatever it takes”.



Un’altra domanda assume tuttavia rilievo: siamo di fronte a una nuova crisi del debito sovrano italiano oppure l’impennata dello spread dopo il fallimento del tentativo di costituire il Governo italiano è un fenomeno passeggero destinato a rientrare? Anche in questo caso non è possibile dare una risposta precisa. Il livello e la variabilità, anche in un arco temporale brevissimo, dello spread dipende in questo periodo esclusivamente dalla situazione politica, non da variabili economiche.



Lo spread è destinato a stabilizzarsi su livelli più contenuti, in linea con quelli che hanno preceduto la recente impennata, solo ed esclusivamente se si formerà in un breve tempo un governo con una stabile maggioranza i cui intenti palesi, dichiarati nel programma, e non palesi riescano a convincere i mercati che i conti pubblici resteranno sotto controllo, che non vi saranno impennate di spesa pubblica in disavanzo e che non vi è alcuna intenzione di uscire dalla moneta unica.

L’esatto contrario dei messaggi che abbiamo veicolato in questo periodo, in cui in tre mesi il governo non solo non è stato formato, ma si sono anche affacciate alla ribalta soluzioni estremamente differenziate, prima una maggioranza M5S-Lega poi M5S-Pd, poi ancora M5S-Lega, fallita sul nome del ministro dell’Economia, poi il governo neutro, quindi le elezioni anticipate dopo l’estate, anzi alla fine di luglio, poi forse di nuovo una soluzione M5S-Lega. Dunque il governo non è stato fatto e ciò è avvenuto nel modo peggiore possibile, generando grande confusione e incertezza.



Inoltre, bisogna ricordare che i programmi delle due forze politiche che hanno provato a formare il governo, assemblati nel “contratto” tra Di Maio e Salvini, determinerebbero una volta attuati nella loro interezza, secondo le stime dell’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica diretto da Carlo Cottarelli, maggiori spese e minori entrate per una cifra complessiva compresa tra 109 e 126 miliardi, a fronte della quale non è indicata praticamente alcuna copertura. Pertanto si è creata l’attesa che si desiderino sforare gli impegni presi a livello comunitario sulle dinamiche del rapporto debito/Pil.

Infine, la proposta di nominare come ministro dell’Economia Paolo Savona, il quale ha da tempo eretto a sua personale delenda Cartago l’uscita dall’euro, ha fatto traboccare il vaso della prudenza degli operatori finanziari e lo spread si è immediatamente impennato. La nomina di Savona, evidentemente, era ed è incompatibile con le esigenze di un Paese ad alto debito come il nostro che deve in media ogni mese ricorrere ai mercati per farsi prestare più di 30 miliardi, oltre un miliardo al giorno. Come si fa oltretutto a chiedere più soldi ai mercati e nello stesso tempo far sapere che si sta ipotizzando se restituire o meno il debito, se farlo solo in parte oppure con una nuova moneta svalutata? Inoltre, Savona è un eccentrico complottista il quale sostiene da anni che la Germania a guida Merkel stia mettendo in atto un piano nazista di asservimento dell’Europa elaborato dal ministro dell’Economia del Terzo Reich Walter Funk. È una balla clamorosa, come ho dimostrato in un recente intervento, e Savona, evidentemente, non è la persona più adatta a trattare con la Germania e con l’Unione europea.

Nominare Savona all’Economia sostenendo che l’Italia non intende uscire dall’euro è come nominare Catone il Censore ministro della Difesa sostenendo che Roma non intende assolutamente distruggere Cartagine. L’insistenza sul suo nome, sino alla rinuncia a formare il governo, ha avuto l’effetto di informare platealmente i mercati che Roma intende davvero distruggere Cartagine. I mercati ne prendono atto e cercano di mettere in salvo i soldi allocati in Italia. In conseguenza lo spread si scatena sino a superare martedì scorso i 320 punti base.

Bloomberg scriveva quel giorno: “Here’s what U.S. investors returning to their seats from a long weekend need to know: Tuesday is the day that return of capital invested in Italy became more important than return on capital invested in Italy”. Ho lasciato il testo in inglese per il gioco di parole su ‘return’ che vuol dire tanto ‘rientro’ (dei capitali investiti in Italia) quanto ‘rendimento’ (sempre dei capitali investiti in Italia). Bloomberg sottolinea come il loro ritorno a casa, sani e salvi, sia divenuto un obiettivo assai più importante del loro rendimento. Pertanto se Roma attaccherà effettivamente Cartagine bisognerà rimpatriare in tempo i capitali, molto più velocemente di quanto fece con le truppe britanniche W. Churchill a Dunkerque. Quella che dobbiamo attenderci è dunque un’evacuazione dei capitali dall’Italia quando emergeranno precisi segnali di attacco governativo alla moneta unica che abbiamo adottato nel 1999.

Dopo aver fatto di tutto per svegliare il can che dorme dei mercati dobbiamo prendere atto del suo abbaiare, la rapida risalita dello spread il quale, stabile sui 120-130 punti base per tutta la prima metà di maggio, è rapidamente salito nella seconda sino a impennarsi nei primi giorni di questa settimana, passando dai 190 punti della fine delle contrattazioni della settimana precedente sino oltre 320 martedì mattina, poi ridimensioni sino a circa 250 negli ultimi due giorni. Ma il cane che si sveglia non si limita ad abbaiare ma morde, generando costi per diversi soggetti economici. Il primo a farne le spese è il Tesoro italiano, il quale proprio nei giorni scorsi ha tenuto due aste di titoli pubblici, collocati sul mercato a rendimenti molto più elevati delle aste precedenti. Sui Bot è stimabile un maggior esborso di 55 milioni di euro, sui Btp decennali di circa 240 milioni per tutto il periodo della loro validità, per i Btp quinquennali circa 150 milioni, sempre per l’intero periodo della loro durata, e infine per i Ccteu circa 35 milioni all’anno nell’ipotesi di rendimenti stabili nel tempo. Il maggior onere totale si colloca in conseguenza sopra il mezzo miliardo di euro, una perdita conseguita in soli due giorni di irrequietezza dello spread.

Ma poiché l’aumento dello spread è appena avvenuto, non sappiamo quando e a che livello esso si stabilizzerà, conviene fare due conti sui costi generati dalla precedente crisi, quella del 2011-2012, periodo sul quale possiamo fare riferimento alle statistiche storiche. Vediamo allora come andarono le emissioni in quel periodo. Anche se nel 2011 lo spread salì oltre i 500 punti base nei giorni peggiori, corrispondenti a cinque punti percentuali di rendimento in più, l’effetto sui tassi medi in emissione dei titoli pubblici fu molto più contenuto. Nel 2010, l’anno prima della crisi finanziaria, il tasso medio di emissione di tutti i titoli pubblici fu pari al 2,1% e nel 2011 salì al 3,6%, con un incremento di un punto e mezzo percentuale. Nel 2012 ricominciò invece la discesa, con un tasso medio nell’anno del 3,1% che in seguito, con l’effetto Draghi, si abbassò al 2,1% nel 2013 per poi attestarsi in ogni anno del triennio 2015-17 al di sotto del punto percentuale. Possiamo pertanto prendere come misura del costo del rialzo dello spread un punto e mezzo percentuale per i titoli emessi nel 2011, un punto percentuale per i titoli emessi nel 2012 e nulla per gli anni successivi in quanto il drago dello spread fu pienamente sconfitto dalla spada di Draghi in versione San Giorgio.

Nel 2011 il Tesoro emise 441 miliardi di titoli, sui quali un punto e mezzo di rendimento in più rappresenta un onere annuo aggiuntivo di 6,6 miliardi di euro. Ipotizzando una durata media di quei titoli di cinque anni l’onere totale fu di circa 33 miliardi. Invece l’anno successivo il Tesoro emise 480 miliardi di titoli, sui quali un punto di rendimento in più rappresenta un onere annuo aggiuntivo di 4,8 miliardi di euro. Ipotizzando una durata media di quei titoli di cinque anni l’onere totale fu di circa 24 miliardi. Possiamo pertanto stimare il costo complessivo della crisi dello spread del 2011 in 57 miliardi di maggiore spesa per interessi sul debito pubblico, una cifra che dovremmo tenere in debito conto prima di scatenare altri panici sui mercati finanziari per effetti di pericoli annuncio o rischiose scelte della nostra classe politica.

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