“Il rapporto debito/Pil deve iniziare un chiaro percorso discendente, un’evoluzione che è bene non mettere a repentaglio perché il consolidamento di bilancio è una delle condizioni necessarie per mantenere e rafforzare la fiducia dei mercati”; “gli interventi relativi alle riforme andranno adeguatamente coperti”; “le prospettive di crescita e di finanza pubblica sono meno favorevoli”; “lo scenario tendenziale del rapporto deficit-Pil sarà oggetto di seria riflessione in sede di predisposizione del quadro programmatico e nel rispetto degli impegni europei e della normativa italiana si individuerà il percorso più adatto”. Così il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, nel suo intervento in Aula, nel giorno in cui è arrivato il via libera della Camera alla risoluzione di maggioranza Lega-M5s sul Def, che impegna il governo a disinnescare le clausole di salvaguardia e chiede di “riconsiderare in tempi brevi” il quadro di finanza pubblica 2019-2021, puntando su una maggiore flessibilità delle regole Ue. Ma Tria, con le sue parole, ha riportato tutti con i piedi per terra? “Diciamo – risponde Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano – che il ministro ha ricordato come il programma del governo Lega-M5s, a parte la cosiddetta flat tax, che resta ancora nebulosa, potrebbe essere attuato, nelle sue parti più significative, soltanto se fosse sgranato nel tempo e solo in uno scenario di crescita robusta”.



Ma lo stesso Tria ha ricordato che la crescita rallenta, anche se il rilancio “è alla nostra portata”. È davvero così?

Potrebbe essere così se avessimo una spinta forte dagli investimenti, che creano occupazione e giovano all’export, pur in un quadro tuttora molto complicato da vicende esterne, come la questione dei dazi. In realtà, la nostra resta una crescita ancora troppo anemica. Anzi, nonostante la crescita, assistiamo all’aumento della povertà assoluta.



Sul deficit ci sarà una seria riflessione dopo l’estate in sede di predisposizione del quadro programmatico e nel rispetto degli impegni europei e della normativa italiana si individuerà il percorso più adatto. Che spazi possiamo avere?

Uno spazio c’è. Anche senza regole del gioco ammorbidite, se la crescita si rafforza e i tempi di rientro del disavanzo si sgranano, questo ci può aiutare. Non dimentichiamo, poi, una componente importante: la redistribuzione delle risorse europee agli Stati membri. Noi, a partire dalla questione del Mezzogiorno, abbiamo titolo perché i fondi arrivino, siamo un Paese importante della Ue, “too big to fail, too big to save”, cioè troppo grande per fallire e troppo grande per essere salvato. E questo è un bene: non dobbiamo chiedere una mano dall’esterno, ma salvarci da soli. Certo, sui fondi Ue abbiamo dimostrato una colpevole insufficienza nel saperli utilizzare in modo quantitativamente completo e qualitativamente efficace. Dobbiamo migliorare, perché questo è un canale importante per far quadrare il rispetto dei vincoli di bilancio e per poter effettuare gli investimenti, visto che al momento la “golden rule”, cioè la possibilità di stralciare gli investimenti dal computo del disavanzo, non si fa. E sui fondi Ue non occorre battere i pugni sul tavolo, basta trovare canali di sponda che già ci sono.



La risoluzione sul Def firmata Lega-M5s chiede maggiore flessibilità alla Ue. Quanta ne potremo ottenere, secondo lei?

Direi che è ora di finirla di rompersi la testa sugli zerovirgola, è una vittoria di Pirro sia per noi che per l’Europa riuscire a strappare o negare uno 0,1 o uno 0,2. Anche perché i conti europei, in alcuni casi, sono un puro esercizio e neppure tanto lodevole.

A cosa si riferisce?

Penso al nostro prodotto potenziale, sul quale sono misurati tutti gli interventi sulla flessibilità. È noto quanto sia una misura calcolata con grandi margini di discrezione, ma già in partenza fragili. Non stiamo parlando di una navicella spaziale, dove un grado in più o in meno nella fase di rientro è decisivo perché può provocare la distruzione della navicella stessa. Guardiamo invece ad altri indicatori, come il tasso di disoccupazione, un termometro senz’altro più efficace. Speriamo che l’Italia riesca a scendere sotto il muro del 10% senza impiegare secoli. Da noi c’è troppa disoccupazione, una disoccupazione che alla lunga diventa insostenibile per il Paese. Non possiamo continuare così, non possiamo più continuare con questa crescita lenta.

Le parole di Tria presuppongono un’attenzione alla sostenibilità dei conti pubblici tale da rendere le riforme annunciate dai due azionisti del governo, Lega e M5s, meno ambiziose?

Quali riforme? Se parliamo del reddito di cittadinanza, è in realtà una sorta di sostegno al reddito, un salario minimo, da dare a chi un lavoro non ce l’ha più in attesa che l’imprenditorialità rialzi la testa e riavvii la macchina degli investimenti e dell’occupazione. All’Italia converrebbe investire di più sugli stabilizzatori automatici.

Perché?

Come ha fatto la Germania a uscire dal crollo del 2009? Utilizzando gli stabilizzatori automatici. In Italia abbiamo pochi stabilizzatori, se non la Cig. In Germania, invece, oltre ad avere un sistema-Paese più competitivo, le indennità sono entrate in vigore automaticamente e in un anno e mezzo la violenta crisi è stata superata in maniera più morbida di quanto sarebbe successo se quelle misure fossero mancate.

(Marco Biscella)